Notizie tratte da: Sandro Catani # Gerontocrazia. Il sistema economico che paralizza l’Italia # Garzanti 2014., 30 agosto 2014
Notizie tratte da: Sandro Catani, Gerontocrazia. Il sistema economico che paralizza l’Italia, Garzanti 2014
Notizie tratte da: Sandro Catani, Gerontocrazia. Il sistema economico che paralizza l’Italia, Garzanti 2014.
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In Italia 400 persone con un’età media superiore a 66 anni influenzano: l’80% dell’occupazione italiana; il 95% della Borsa di Milano; la quasi totalità dei giornali e delle televisioni. Si tratta di imprenditori, manager, banchieri, professori, consulenti, avvocati, sindacalisti, regolatori del mercato.
Mentre la percentuale di donne elette in Parlamento è salita al 31%, il 98% dell’élite economica è di sesso maschile.
Nel triennio 2010-2012 il vertice delle 35 maggiori aziende quotate italiane ha percepito una media di 2,4 milioni di euro annui. In quelle aziende, nel 50% dei casi, per ogni euro pagato ai manager, gli azionisti hanno perso da un minimo di 43 a un massimo di 2.715 euro. I 100 executives più pagati della Borsa di Milano hanno ricevuto un totale di 402 milioni di euro con un incremento di 50 milioni rispetto al 2011.
«Una volta tanto, però, bisognerà pur parlare di cosa è stato, e di che cosa è, il capitalismo italiano. Di coloro che negli ultimi vent’anni hanno avuto nelle proprie mani le sorti dell’industria e della finanza del Paese. Quale capacità imprenditoriale, che coraggio nell’innovare, che fiuto per gli investimenti hanno in complesso mostrato di possedere?» (Ernesto Galli della Loggia, 71 anni, sul Corriere della Sera, 23 ottobre 2013).
Tra le Fortune Global 500, le più grandi aziende al mondo per fatturato, le italiane nel 2008 erano 10 e il numero è sceso a 8 nel 2013.
Il valore totale delle aziende quotate alla Borsa di Milano al 27 dicembre 2013 ammontava a 438 miliardi di euro e le 38 imprese maggiori appartenenti all’indice Ftse Mib contavano per l’83% del totale. Alla stessa data il mercato di Exxon Mobile e di Apple oscillavano intorno a 420 e 490 miliardi di dollari.
Dieci anni fa la Borsa milanese era all’undicesimo posto al mondo con una capitalizzazione di 490 miliardi di euro. Nell’ottobre 2013 era al ventitreesimo posto dopo quelle di Città del Messico, Kuala Lumpur, Jakarta.
Negli ultimi due anni i debuttanti in Piazza Affari sono stati 19, ma di modeste dimensioni all’Aim, il mercato creato appositamente per le piccole aziende.
Alcuni dei marchi italiani finiti in mani straniere: Fratelli Gancia acquistato al 95% da un magnate russo; Ar Industrie Alimentari, primo produttore italiano di pomodori pelati, acquistato dal gruppo Mitsubishi; il 98% di Bulgari e il cachemire Loro Piana è andato a Bernard Arnault, già possessore di Emilio Pucci e Fendi; Richard Ginori, Bottega Veneta e Sergio Rossi a François-Henri Pinault, già possessore della Gucci; la catena Coin al fondo BC Partners; Valentino a Permira e quindi a Mayhoola for Investments che farebbe capo al sovrano del Qatar; la Rinascente alla tailandese Central Retail Corporation. Eccetera.
Uno studio della Commissione Ue sulle regioni più competitive d’Europa nel 2010 indicava l’esistenza di una dorsale economica che collegava Londra alla Lombardia, via Benelux e Baviera. Nel 2013 l’indice di competitività regionale è capitanata da Utrecht, seguita da Londra, Berkshire-Buckinghamshire-Oxfordshire e Stoccolma. La Lombardia è finita al 128esimo posto.
Da uno studio (2013) della fondazione tedesca Bertelsmann: «La crescita della popolazione anziana ha rafforzato l’influenza di un elettorato anziano che direttamente o indirettamente mira all’espansione nella domanda di risorse legate alla vecchiaia e possibilmente anche a una minore pressione per una spesa orientata alle generazioni giovani». La fondazione ha messo a punto un indice denominato Intergenerational Justice Index (IJI) capace di misurare il tasso di giustizia tra generazioni nelle politiche adottate dai 29 Paesi dell’Ocse. L’Italia era nella terzultima posizione, davanti soltanto agli Stati Uniti e al Giappone.
Lo studio della professoressa Archana Singh-Manoux dell’University College di Londra che dimostra il declino della mente già a partire da 45 anni. Il deterioramento maggiore si dimostra nelle capacità di ragionamento e memoria: accade nel 9,6% degli uomini tra 65 e 70 anni e nel 7,4% delle donne della stessa età.
Studio Unicredit, Bocconi e Aidaf (Associazione italiana delle aziende familiari): analizzando le relazioni tra età del leader e risultati conseguiti dall’azienda «si assiste a un sensibile peggioramento della performance a partire dai 60 anni, e in particolare oltre i 70».
Il termine “gerontocrazia” inventato da Jean James Fazy nel 1828. Il suo pamphlet intitolato De la Gérontocratie, ou abus de la sagesse des vieillards dans le gouvernement de la France condannava la classe rivoluzionaria del 1789 salita al potere: «Che straordinario istinto di dominazione muove dunque la turbolenta generazione dell’89. Essa ha cominciato con l’interdire i propri padri, e finisce con il diseredare i propri figli. Il risultato è una Francia concentrata e rimpicciolita in sette-ottomila individui eleggibili, ma asmatici, gottosi, paralitici, arteriosclerotici».
«È proprio dell’uomo anziano governare e del giovane ubbidire» (Platone, La Repubblica).
Tra i luoghi dove si incontrano i 400 dell’élite economica: il Meeting Ambrosetti a Cernobbio, la Relazione del Governatore della Banca d’Italia, l’Assemblea della Confindustria, le riunioni dell’Aspen Institute, il World Economic Forum a Davos. Qualche apparizione a Capri per il convegno dei Giovani Imprenditori, il Meeting di Rimini.
Età media dell’élite economica italiana: 65,84 anni, superiore all’età media della popolazione adulta italiana (43,5). Nel 2013 l’età media dei Ceo delle aziende Fortune, le più grandi del pianeta, era di 55 anni, quella degli amministratori delegati delle più importanti aziende della Borsa di Londra 52.
Persino la politica è più giovane: Matteo Renzi ha 39 anni, Angelino Alfano 43, Matteo Salvini 40, Enrico Letta 47.
Il rapporto Assonime 2013 indica in sei anni la durata media in carica degli amministratori in Italia e in nove anni quella dei consiglieri esecutivi. Prassi esistente anche nelle imprese pubbliche, il che smentisce la diffusa credenza che i cambiamenti politici provochino la rotazione dei manager.
Franco Pecorini (classe 1941) gestì la società pubblica Tirrenia per 26 anni, durante i quali cambiarono ben 19 governi. La Tirrenia, che nel frattempo aveva avuto notevoli perdite economiche, fu commissariata nel 2010.
Luigi Abete, presidente Giovani imprenditori, Confindustria, Assonime, al vertice Bnl dal 1998.
Giorgio Ambrogioni (classe 1948) in Federmanager dal 1975, di cui è presidente dal 2008 e riconfermato nel 2011.
Luigi Angeletti (classe 1949), entrato nel sindacato nel 1975, eletto segretario provinciale Uilm, eletto segretario Uil nel 2000. Da allora in Cgil hanno cambiato tre segretari generali, altrettanti alla Cisl.
Carlo Sangalli (1937) dal 1997 presidente della Camera di commercio industria agricoltura e artigianato di Milano. Terminerà il mandato nel 2017.
Giovanni Puglisi (1945) dal 2001 rettore dell’università Iulm a Milano.
L’80% dell’élite economica italiana è nato nel nord Italia. Più di tutti sono i milanesi, seguiti da una rappresentanza del nord-est e poi dai romani.
L’Osservatorio permanente sul potere di Eurispes nel 2012: «Il potere legato al mondo dell’economia è un potere maschile rappresentato nel 91,6% dei casi da uomini e solo nell’8,4% da donne. Ne sono praticamente esclusi i giovani, dal momento che nell’80% dei casi è in mano agli ultracinquantenni, in un terzo addirittura agli ultrasessantenni».
Da un’indagine Reuters su 238 importanti imprese europee: dopo lo scoppio della crisi, 50 executives sono usciti da grandi aziende europee non perché spinti alle dimissioni, ma perché, di fronte a un compito sempre più pressante, è venuto a mancare loro il vigore o perché hanno trovato più attraente coltivare altrove i propri interessi.
Tra questi manager: Peter Voser, 55 anni, all’inizio del 2014 lascia la guida di Royal Dutch Shell, prima europea per capitalizzazione, uno dei ruoli più ambiti al mondo, alla ricerca di un nuovo stile di vita. Paul Walsh, 57 anni, ha lasciato la carica di Ceo di Diageo, il gigante degli alcolici. Ha ricevuto 14,8 milioni di sterline per l’ultimo anno di carica incluso un premio, per la maggior parte in azioni.
Da un’indagine sui compensi ricevuti dai primi dieci Ceo americani nel 2013 risulta che il più pagato è stato Mark Zuckerberg con due miliardi e 200 milioni di dollari, oltre 4.000 dollari al minuto.
L’idea di agganciare il compenso dei manager ai risultati. «Un’idea all’apparenza convincente, il merito architrave del sistema, uno stipendio fisso ridotto (ma basso quanto?) e un compenso variabile in funzione dei risultati (ma quali risultati?). Sono prevedibili i rischi: il manager, laddove non sia controllato da pesi e contrappesi, può autostabilire l’asticella e superarla agevolmente; la performance può implicare conseguenze dolorose e non desiderate: la chiusura di fabbriche o la dismissione di rami secchi; infine, caso frequente, il risultato può consistere in una perdita inferiore alle previsioni».
Possibile metodo per verificare la coerenza tra compensi dei manager e loro meriti: esaminare il rapporto tra il valore creato per gli azionisti (l’andamento dell’azione e i dividendi in un triennio) e i compensi versati nello stesso periodo al manager. Se per ogni euro che riceve il management, gli azionisti guadagnano almeno 1,1 euro, lo stipendio è meritato. Se, invece, il manager guadagna e l’investitore perde, lo stipendio è immeritato. Con questo sistema si vede che, tra le 28 aziende dell’indice Ftse Mib che al 31 dicembre 2013 avevano almeno 3 anni di quotazione, solo 15 amministratori delegati si erano meritati lo stipendio: poco più della metà.
«Le buonuscite per i manager sono l’equivalente dei contratti prematrimoniali: un modo per lasciarsi senza rancore».
Andrea Ragnetti, per meno di un anno amministratore delegato di Alitalia (marzo 2012 – febbraio 2013). Nel curriculum molte esperienze nei beni di largo consumo e nei servizi di telefonia. Ultimo datore di lavoro prima della compagnia aerea: Philips, come Ceo della Consumer Style (aveva lanciato una linea di vibratori). A febbraio 2013, con perdite a 208 milioni, Alitalia lo sostituì dandogli, tuttavia, una buonuscita di circa un milione di euro.
Nel 2009 Carlo Puri Negri lasciò Pirelli Re in crisi, ma prese 14 milioni di euro di buonuscita, incluso un patto di non concorrenza e un contratto di consulenza biennale.
«Il sistema di mercato non può abdicare alla sua funzione sanzionatoria. Non è possibile che a pagare gli errori del management siano solo gli azionisti (e poco importa se tra questi risulti anche Puri) e non anche i responsabili diretti del cattivo esito degli affari. Dal 2002 a oggi, compresa la ricca liquidazione, Puri si è portato a casa 50 milioni di euro lordi. Tanto per dare un’idea si tratta di un quarto del valore oggi in Borsa dell’intera società Pirelli Re» (Nicola Porro, il Giornale 18 aprile 2009).
Giorgio Peluso che nel 2013 uscì da Fonsai con una liquidazione di 3,6 milioni di euro per una permanenza di 14 mesi nel ruolo di direttore generale.
In Italia c’è l’uso di assumere un top manager attribuendogli le coperture previste dal contratto della dirigenza. Così un executive esce dall’azienda con due paracadute: uno per il mandato di amministratore con deleghe, l’altro per la direzione generale. È stato il caso di Alessandro Profumo e della liquidazione ricevuta da Unicredit: 40 milioni di euro. Cifra risultante proprio dalla somma delle due coperture.
I casi di doppio inquadramento sono presenti nel 60% delle aziende quotate, nelle aziende pubbliche e anche nelle aziende famigliari.
Quando la buonuscita viene data a un manager che lascia l’azienda in condizioni difficili si parla di “pay for failure”.
Nel decreto Salva Italia Mario Monti fissava a 294.000 euro le retribuzioni dei dirigenti pubblici. Il primo monitoraggio realizzato dal ministro per la Funzione pubblica, Filippo Patroni Griffi, nel febbraio 2012 rivelò che l’allora capo della polizia Antonio Manganelli prendeva 621.000 euro l’anno, seguito dal ragioniere dello Stato Mario Canzo (562.000 euro) e da Franco Ionta (543.000 euro), capo del dipartimento penitenziario.
Andrea Monorchio (classe 1939), già ragioniere dello Stato, presidente dal 2002 della Consap (concessionaria per i servizi assicurativi pubblici), presidente di Micoperi Marine Contractors, vicepresidente della Banca Popolare di Vincenza, presidente dei collegi sindacali di Fintecna, Telespazio, Fintecna Immobiliare, Fondazione per i beni e le attività artistiche della chiesa, Salini Costruttori, presidente del Consiglio di sorveglianza dell’Alitalia in amministrazione controllata, advisor dello studio Pirola Pennuto Zei & Associati, membro del comitato territoriale Roma di Unicredit, consigliere di amministrazione della Fondazione Amintore Fanfani, componente del Comitato scientifico della Fondazione Rosselli di Torino eccetera.
Pochi i manager stranieri. Il fatto che nella Parmalat di Calisto Tanzi prima del crack ci fossero vari manager stranieri pare aver convinto sempre di più le aziende ad avere solo collaboratori italiani.
Il nome Snam era spiegato con l’acrostico “Siamo nati a Matelica”, città di adozione della famiglia Mattei, dove nacqueto le persone a lui più vicine: Marcello Boldrini e Raffaele Garotti.
Un sondaggio curato nel 2013 da Cfmt (Centro di formazione del management del terziario) ha rivelato che per i vertici aziendali le diversità (di cultura, genere, orientamento sessuale, età, nazione) non è un’opportunità né un problema.
Guido Barilla, che al programma radiofonico La zanzara disse: «Non farei mai uno spot con una famiglia omosessuale, non per mancanza di rispetto ma perché non la penso come loro: la nostra è una famiglia classica, dove la donna ha un ruolo fondamentale». Seguì la campagna #boicottabarilla. Conclusione: l’azienda creò un “diversity & inclusion board” e nominò il primo chief diversity officer in Italia.
Dopo l’introduzione della legge sulle quote rosa nei cda, nella tornata delle assemblee 2013 le donne elette consiglieri d’amministrazione sono state 183, cioè il 33% dei nominati.
In Italia nel 2008 le donne rappresentavano il 5,9% dei cda delle imprese quotate. Nel 2012 erano diventate l’11,6%. A giugno 2013 il 17,1%.
A livello internazionale le donne ricoprono l’11% dei posti nei consigli delle più grandi e conosciute società del mondo. Dal 2011 c’è stato un incremento dello 0,5%.
Nella Fortune Global 500 relativa alle aziende statunitensi, le donne sono il 17% dei componenti dei cda. Il 50% delle aziende Fortune non ha nemmeno una donna amministratrice.
Marina Grossi, dal 2005 al 2011 amministratore delegato della Selex Sistemi Integrati, una controllata di Finmeccanica di cui era presidente il marito, Francesco Guarguaglini.
Uno studio della Banca d’Italia ha messo in luce due modelli nella scelta delle donne amministratrici: nelle aziende quotate piccole e medie sono espressione della famiglia o hanno relazioni forti con essa; solo nelle aziende più grandi si trovano le “unaffiliated women”, indipendenti.
Il Codice di autodisciplina che raccomanda alle imprese quotate alcune buone pratiche da seguire: non contiene nulla sulle quote rosa. Il Codice è preparato da un comitato di garanti formato dai più importanti nomi dell’impresa italiana: c’è una sola donna (Marcella Panucci, 43 anni, direttore generale di Confindustria).
Se si escludono le imprenditrici che controllano le aziende di famiglia, ci sono solo tre amministratori delegati donna su 292 aziende quotate: Donatella Treu (Il Sole 24 Ore), Monica Mondardini (Cir), Luisa Deplazes de Andrade Delgado (Safilo).
Il rapporto 2010 Global Youth Employment Trends dell’Organizzazione internazionale del lavoro evidenziava, alla fine del 2009, che dei 620 milioni di persone tra 15 e 24 anni nel mondo 81 milioni erano disoccupati. Il tasso di disoccupazione giovanile è aumentato dall’11,9% del 2007 al 13% del 2009.
In Italia il 40% dei giovani d’età compresa tra 16 e 24 anni è disoccupato e buona parte di loro non cerca occupazione.
I politici a proposito dei giovani. «Bamboccioni» (Tommaso Padoa-Schioppa); «Devono abituarsi all’idea che non avranno un posto fisso per tutta la vita. Del resto, diciamo la verità, che monotonia un posto fisso per tutta la vita. È più bello cambiare (Mario Monti, al vertice della Bocconi dal 1994); «I giovani escono dalla scuola e devono trovare un’occupazione. Devono anche non essere troppo… choosy, come dicono gli ingesi» (Elsa Fornero).
Il viceministro Michel Martone che diede degli «sfigati» a quelli che si laureano a 28 anni. Figlio di noto magistrato, a 23 anni era laureato e impegnato in un dottorato, a 29 addirittura vincitore di un concorso per docente ordinario a Siena. Nel 2010 alcuni senatori Pd interpellarono Brunetta, ministro per la Pubblica amministrazione, per avere delucidazioni sull’opportunità di un contratto di consulenza con Martone (40mila euro circa) per occuparsi di «problemi giuridici della digitalizzazione delle ammnistrazioni pubbliche di paesi terzi».
La rivista americana Family Business pubblica la lista delle più vecchie aziende del mondo. Tra le prime quindici, otto sono italiane: Campane Marinelli, fondata nell’anno Mille (20 dipendenti, di cui 5, compreso l’ad, si chiamano Marinelli); la Barone Ricasoli, produttrice di vini a Siena, fondata nel 1141; la Barovier&Toso, vetraria di Murano, fondata nel 1295; la Torrini, gioielliera di Firenze, del 1369; l’Antinori, vinicola di Siena, del 1385; la Camuffo, costruttrice di barche a Portogruaro dal 1438; la Grazia Deruta di Torino, maioliche dal 1500; la fabbrica d’armi Pietro Beretta, di Gardone, fondata nel 1526.
La più antica azienda del mondo è la giapponese Kongo Gumi, fondata nel 578, specializzata nella costruzione di templi buddisti.
Caratteristiche delle imprese famigliari: scarsa disponibilità ad aprirsi al capitale di terzi; modesta propensione all’innovazione; resistenza al cambio generazionale. Se si quotano in Borsa, al 50% restano controllate dalla famiglia che le ha quotate, da sola o attraverso patti di sindacato.
«Gli imprenditori (…) per una naturale riluttanza a lasciare la poltrona di comando, per economia di costi, per un rapporto di maggior fiducia, si circondano di figli, nipoti e parenti, ai quali distribuiscono compiti e deleghe. Ma ormai la soglia del “fai da te” si sta riducendo e diventa vitale farsi assistere: così l’imprenditore si trova a condividerre lo spazio della gestione con un direttore generale/amministratore delegato o a cambiare concentrandosi sul ruolo di azionista. Un ruolo tutto diverso. Interpretare la parte dell’azionista è un mestiere che richiede infatti la capacità di mantenere una sana distanza dalla creatura che si ha fondato e si ama».
Nella Buzzi quattro consiglieri esecutivi su cinque si chiamano Buzzi; in Saras i Moratti sono cinque su dieci consiglieri; in Indesit i Merloni sono cinque su undici nel cda; in Ferragamo quattro su dodici hanno lo stesso cognome; in Banca Sella Holding i consiglieri con il cognome di famiglia sono otto su sedici.
«La crisi del management è in qualche modo la crisi dell’azienda. Il motivo è la governance dell’impresa. Qui i casi sono due: o c’è un anziano che ha fondato l’impresa 20 o 30 anni prima, o c’è suo figlio. In entrambe le eventualità il manager si sente schiacciato: per questo i giovani appena comprendono questa verità preferiscono emigrare per cercare altrove le chance di crescita» (il manager Riccardo Monti, 55 anni, presidente dell’Ufficio italiano greco e turco del Boston Consulting Group).
Tra i manager italiani che hanno trovato successo all’estero: Diego Piacentini, 54 anni, numero due di Amazon, Alberto Cribiore, Ceo di Merrill Lynch mondo; Lorenzo Simonelli, 41 anni, Ceo di General Electric Oil & Gas; Fabrizio Freda, Ceo di Estée Lauder (di cui ha portato a quadruplicare la capitalizzazione, a un fatturato di oltre 10 miliardi di dollari e a un tasso di sviluppo superiore alla crescita del mercato); Antonio Belloni, 60 anni, direttore generale di Lvhm, braccio destro di Bernard Arnault; Gianfranco Lanci, 60 anni, già a capo dei computer Acer ora executive vice president della cinese Lenovo.
Quando alla Banca d’Inghilterra, nel 2013, servì un nuovo governatore, fu scelto il canadese Mark Carney, 48 anni, ex Goldman Sachs e Banca del Canada.
Dal dopoguerra, con le sole eccezioni di Luigi Einaudi e Mario Draghi, tutti i governatori della Banca d’Italia (Donato Menichella, Guido Carli, Paolo Baffi, Carlo Azeglio Ciampi, Antonio Fazio, Ignazio Visco) sono cresciuti nella carriera interna.