Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  agosto 27 Mercoledì calendario

QUELLI CON IL SACRO STIPENDIO

I professori universitari di prima fascia non vogliono andare in pensione come lutti gli altri dipendenti pubblici a 65 anni (per loro il limite attuale è a 70), e lanciano appelli contro il ministro Marianna Madia. Proclamano che se la proposta del Governo si realizzasse il livello degli studi e dell’insegnamento ne sarebbe straordinariamente impoverito per la mancanza di rincalzi adeguati. Ancora: i magistrati protestano a propria volta contro la minacciata riduzione delle retribuzioni e non vogliono andare in pensione come proposto a 70 anni (il limite attuale è 75), dichiarando che altrimenti sarebbe in pericolo la tenuta dei più importanti uffici giudiziari del Paese. Anche in questo caso per la mancanza di rincalzi all’altezza della situazione: il che alla fine, sostengono, metterebbe in pericolo niente di meno che il ruolo e l’indipendenza stessa della magistratura. Da ultimo, i dipendenti amministrativi e i funzionari della Camera hanno – per la prima volta nella storia, sembra – organizzato anche loro una manifestazione di protesta con relativi urli e schiamazzi poiché non intendono accettare il tetto di 240 mila euro stabilito dal Governo Renzi per tutti i dipendenti pubblici (si ricordi che oggi il Segretario generale della Camera arriva ad esempio a guadagnare al lordo più del doppio). Al pari dei magistrati, essi pure sostengono che l’imposizione del tetto in questione, violando la discrezionalità del Parlamento di darsi le regole che vuole (e di cui per l’appunto i suoi dipendenti hanno finora così largamente approfittato), violerebbe – niente di meno! – anche il suo rango politico-costituzionale, e quindi in definitiva la sua libertà.
Quelli appena fatti sono solo tre esempi recentissimi di una malattia che da sempre affligge tutte le élite italiane, ma che, aggravatasì paradossalmente con la democrazia, sta ormai uccidendo il Paese: il corporativismo.
Grazie al suffragio universale, infatti, e alla crucialità in esso dei gruppi di pressione socialmente qualificati, spesso detentori dì un potere assai concreto anche se talora informale, nonché per effetto del voto organizzato (specie quando i partiti sono deboli o inesistenti), il cuore della classe dirigente italiana è divenuto un insieme di corporazioni dominate da un egoismo selvaggio. Magistrati, professori universitari, medici, avvocati, commerci ah sti, notai, farmacisti, grand commis dello Stato, alti dirigenti pubblici (un tempo anche i giornalisti, oggi però assai ridimensionati per effetto della crisi del settore), non sembrano avere altro scopo che quello di autoperpetuarsi. Non a caso si dimostrano solo desiderosi di autogovernarsi, spacciando tale autogoverno come la garanzia necessaria al? efficienza della loro funzione. Pretendono sempre, cioè, di decidere loro, all’interno dei propri «ordini», «consigli superiori» o altri organi consimili, le regole di governo (e possibilmente anche l’entità delle retribuzioni e delle tariffe) della propria attività. A cominciare dalle regole di accesso, in genere restringendole al massimo. Con quali risultati qualitativi si vede quando poi dichiarano essi stessi che mancherebbero rincalzi in grado di prendere il loro posto.
È questo dominio delle corporazioni nella classe dirigente italiana, estesosi ormai a quasi tutta la società (vedi ad esempio che cosa è oggi il sindacato), a dare al Paese il suo carattere conservatore che adesso lo condanna a un immobilismo sul punto di diventare paralisi.