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 2014  agosto 29 Venerdì calendario

QUEL BOSS IN GARA NEL PREMIO SCIASCIA

Non poteva mancare l’ineluttabile polemica di fine estate sull’antimafia, anzi su chi è più antimafia. L’occasione è stata colta da Gaspare Agnello.
Il giurato della 26a edizione del premio letterario Racalmare intestato a Leonardo Sciascia e uno dei padri fondatori del concorso, sostiene che non sia cosa giusta ospitare tra i libri finalisti «Malerba», la biografia del killer Giuseppe Grassonelli scritta dallo stesso ergastolano e dal giornalista del Tg5 Carmelo Sardo. A sostegno delle proprie tesi Agnello tira in ballo lo stesso Sciascia (che ovviamente «non sarebbe d’accordo», ha deciso il giurato) e i nomi sacri di Bufalino e Consolo, vincitori di due edizioni passate. Tutti e tre, purtroppo, non possono partecipare al dibattito per ovvii motivi.
Il discorso potrebbe chiudersi frettolosamente se fosse accertato che il buon Gaspare Agnello ha sempre partecipato alle riunioni della giuria, fino a luglio quando sono stati designati i finalisti, e che si è ravveduto solo dopo aver letto il libro in ritardo e dopo aver ricevuto in sogno il dissenso di Sciascia e Bufalino. Un giurato che non ha il tempo di documentarsi su ciò che deve giudicare, forse, dovrebbe tacere e basta. Ma la polemica piace e così eccoci qui ad affrontare l’intramontabile dibattito su cosa è antimafia e cosa no.
È davvero incredibile che ciò accada in un territorio particolare (Grotte e Racalmuto, «paese della ragione sciasciana»,) e su argomenti che il grande scrittore ha avuto modo di ben spiegare. Sciascia ha scritto sulla mafia, sull’antimafia, sul carcere, sull’Inquisizione, sulla possibilità di redenzione e ne ha scritto sempre aborrendo la retorica tronfia, gli argomenti scontati e i giudizi frettolosi. Ha fatto imbestialire i custodi della liturgia dell’antimafia, mettendo in discussione l’automatismo secondo cui chi agisce in nome della lotta alla mafia agisce sempre bene. Figurarsi se poteva scandalizzarsi per la presenza di un ergastolano – uno che ha riconosciuto i propri errori e si denuda per espiare – nella rosa dei finalisti di un premio letterario. Dice ancora il buon Agnello: «Grassonelli no, perché non si è neppure pentito». Come se il divenire pentito fosse l’unico passepartout per rientrare nella società civile. Allora, provocazione per provocazione, replichiamo: «È peggio un Grassonelli redento dalla presa di coscienza e dalla cultura (si è laureato in lettere in carcere) di un pentito come Enzo Scarantino, ascoltato fino in Cassazione e poi smentito dai fatti?». Gaspare Agnello dovrebbe sapere quanto scivoloso sia il dibattito su mafia e antimafia. Lo stesso Sciascia pagò le conseguenze di una critica ardita ai cosiddetti «professionisti dell’antimafia», fino a dover allentare i rapporti con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino per poi riallacciarli nel tempo, addirittura con un pranzo di pacificazione.
Noi, per parte nostra, vogliamo chiudere citando parole giuste pronunciate da Gesualdo Bufalino quando Vincenzo Consolo, proprio a Racalmare, in occasione dell’omicidio del giudice Livatino, disse che non si potevano assegnare premi letterari «mentre i magistrati muoiono». Il vecchio Bufalino replicò: «Abbiamo bisogno di un esercito di scrittori che parlino di mafia. Per sconfiggerla bisogna seppellirla sotto una montagna di libri». Ma forse il libro della mafia viene ancora considerato indegno di sedere nel salotto dei letterati.
Francesco La Licata, La Stampa 29/8/2014