Gianni Riotta, La Stampa 29/8/2014, 29 agosto 2014
JOHN LENNON, IL PENTIMENTO DELL’OMICIDA: “IO, UN IDIOTA”
Proviamo a dimenticarcene alla fine, come un rimorso tenace, un incubo angosciante, il volto del nemico. E ritornano invece quando hanno diritto al «parole», la libertà per buona condotta, sempre negata.
Charles Manson compirà 80 anni a novembre, ne aveva 37 nel 1971 quando, sulle note della canzone dei Beatles «Helter Skelter» uccide sette persone in California, inclusa la bellissima attrice incinta Sharon Tate, moglie del regista Roman Polanski. Gli hanno negato la libertà 12 volte, vive con una svastica incisa in fronte. David Berkowitz, «The Son of Sam», serial killer degli Anni 70 condannato per almeno sei vittime, s’è convertito al cristianesimo e rifiuta di uscire dal carcere di Attica «per espiare i miei peccati». Sirhan Sirhan, stalliere nato in Giordania a 24 anni uccide, nel 1968, il senatore Bob Kennedy, vincitore delle primarie democratiche per la Casa Bianca: vive ancora nel carcere di San Diego, membro della setta dei Rosa Croce e protagonisti di infiniti blog sui complotti, primo sicario in America di guerre lontane. John Hinckley, 25 anni, ossessionato dall’attrice Jodie Foster, ferisce nel 1981 il presidente Reagan e il suo addetto stampa James Brady: se la cava con l’infermità mentale, ma la morte di Brady, poche settimane fa, riapre il caso per omicidio.
Poi c’è Mark David Chapman, 59 anni, il killer di John Lennon, ucciso nel dicembre del 1980 davanti la sua casa di Central Park West, quel mastodontico palazzo chiamato Dakota perché quando fu costruito, nel 1884, era isolato a Nord-Ovest di Manhattan tra i prati, come l’omonimo Stato americano. I vecchi newyorkesi lo considerano stregato, popolato da fantasmi, Polanski stesso gira lì l’horror movie «Rosemary’s Baby», nel 1968, nomi, date e sangue che ricorrono bieche, il giallista Patterson e il romanziere Lee Child nella saga di Jack Reacher, usano il Dakota come background.
Chapman s’è presentato davanti al «parole board», la commissione che concede la libertà per buona condotta, per l’ottava volta. Ha raccontato «il mio incredibile stalking contro John Lennon», le promesse fatte invano alla fidanzata di «buttare via la pistola che invece conservai», il viaggio a New York tre mesi prima dell’omicidio «per studiare le strade intorno al Dakota» dal viale di Central Park West dove adesso sorge il giardino di Strawberry Fields dedicato all’ex Beatles, fino a Columbus Avenue, allora un’oscura strada di bottegucce e caffè, oggi arteria di lusso, brand, ristoranti francesi alla moda. «Finsi di voler scrivere un libro per bambini, uccisi Lennon».
In carcere il comportamento di Chapman è stato sempre quieto e rispettoso delle regole, non come un altro killer famoso, Robert Chambers, «l’assassinio delle scuole private» che nel 1986, a 19 anni, strangola dietro il Metropolitan Museum, durante, sostiene, un amplesso a Central Park, la diciottenne Jennifer Levin, sconta la pena di 15 anni per finire - una volta rilasciato - all’ergastolo per spaccio di droga. Chapman, come «il figlio di Sam», si professa «cristiano», fa apostolato fra gli altri detenuti, dichiara «Gesù guida la mia strada… sono stato un idiota a cercare la gloria in quel modo tragico… ero alcolizzato, consumavo stupefacenti, psicofarmaci contro la depressione…».
Come da tradizione, la Commissione ha chiesto ai familiari delle vittime il parere preventivo, che non ha però valore di veto, sul rilascio del condannato. Yoko Ono, vedova di John Lennon, ha, anche stavolta, detto di no. Yoko, 71 anni, vestita di nero, passeggia dal Dakota al Reservoir, il laghetto di Central Park, a braccetto con un’amica, salutando con la mano chi la riconosce. Agli amici confida «io e John abbiamo creduto nella libertà, ma Chapman è pericoloso».
Nel 2016 Chapman tornerà a bussare alla porta della semilibertà. Avesse ucciso uno sconosciuto chitarrista, dopo 34 anni di buona condotta, sarebbe forse già uscito. Ma i Chapman, i Mason, gli Hinckley, i Chambers, i Sirhan sono il Male nel Museo delle Cere delle nostre angosce. I media che li han resi famosi sono la loro invisibile prigione, hanno voluto incarnare il male e se ne sono fatti ostaggio per sempre.
Gianni Riotta, La Stampa 29/8/2014