Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  agosto 28 Giovedì calendario

LA SVOLTA «MULTINAZIONALE» DELLE ’NDRINE

La voce viene da dentro. A raccoglierne lo sfogo sono i servizi di intelligence italiana che, secondo quanto risulta al Sole 24 Ore, hanno girato carte e informazioni ad alcune Direzioni investigative antimafia, Procure antimafia e prefetture del nord e del sud.
La voce raccolta - anzi: il grido - è quella di un manager piemontese finito nel tritacarne della nuova frontiera della ’ndrangheta: avvicinare e corrompere dirigenti italiani delle multinazionali e delle holding per ottenere, indirettamente, di essere accreditata nei mercati imprenditoriali e finanziari.
È solo il primo passo. Il secondo è quello di mettere nelle mani dei manager avvicinati o corrotti valanghe di soldi con un solo scopo: costituire in Italia (se del caso, rilevando) scatole cinesi in settori tradizionali (come il manifatturiero) nelle quali riciclare e avvicinare anche aziende pubbliche alle quali vendere servizi. Del resto, non più tardi del 14 aprile, nell’audizione in Commissione parlamentare antimafia, il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, lo aveva ricordato: «Da Roma in su, fino alla Norvegia, vanno a comprare tutto ciò che è in vendita, perché sono gli unici ad avere contanti. Imprese in crisi, alberghi, ristoranti, pizzerie. Stanno comprando tutte loro».
Su questo tema, «delicatissimo», come lo ha definito lui stesso il 5 giugno in Commissione parlamentare antimafia, è intervenuto Antonello Montante, presidente di Confindustria Sicilia e delegato nazionale di Confindustria per la legalità. «Esistono altri fenomeni di riciclaggio - ha detto Montante di fronte alla presidentessa Rosi Bindi - di cui abbiamo avuto evidenza. Pensiamo che la mafia non sia adeguata, mentre la ’ndrangheta lo è, a individuare aziende molto importanti, si parla anche di multinazionali, individuando il management in carica magari sempre dello stesso territorio di provenienza, quindi gente che ha studiato fuori, che si trova a gestire queste organizzazioni. Si tratta di convincerli non solo a investire in maniera un po’ dubbia sui nostri mercati, in questo caso, ma addirittura di dare loro finanziamenti occulti, quindi riciclaggio, per costituire centinaia di altre aziende, che fanno tutte capo a quel manager, che a sua volta fa parte, magari, di una multinazionale estera, dove non c’è nessun tipo di sospetto su quella persona. Nel frattempo nascono scatole cinesi nel nostro territorio, che poi vanno a fornire possibilmente anche enti pubblici del nostro Paese».
La gola profonda che ha raccontato le mosse su una scacchiera che non ha più bisogno di prendere di petto l’imprenditore in difficoltà, ha raccontato anche che le società oggetto di razzia sul mercato italiano - al momento sarebbero almeno 200 e tutte a cavallo tra la Lombardia e il Piemonte - sono quelle con il classico padrone unico, del quale vengono rilevate le quote apparentemente al valore nominale ma in realtà con un ampio ricorso al nero.
In ogni caso, per le cosche reggine che riciclano così le immense fortune, sarà un successo: se l’impresa camminerà, bene, altrimenti con la liquidazione dell’azienda, la ’ndrangheta realizza comunque un utile che serve a ripulire i soldi.
La mente del sistema è in Calabria (per la precisione nella provincia di Reggio Calabria) e le radici sono nelle province di Varese, Milano, Cuneo, Torino e Alessandria fino ad arrivare in Lussemburgo, Svizzera, Olanda, Germania, Russia, Repubblica Ceca e Scozia. Nomi di una mappa geografica non certo nuova. Da anni, ormai, la Lombardia e il Piemonte sono pascoli in cui le cosche calabresi scorazzano, conquistando di volta in volta nuove praterie, che oggi si chiamano (ed è questa la novità sulla quale convergono gli sforzi di alcuni investigatori e inquirenti) elettronica industriale, locazione di immobili e macchinari, gestione delle imprese.
Al limite, relativamente nuova è la capacità della ’ndrangheta 2.0 di agire a livello internazionale e di mettere radici e consolidarsi in modo strutturato in realtà territoriali anche lontanissime che, tuttavia, mantengono il cordone ombelicale con la casa madre. E così, al bando il controllo stringente ed opprimente con attentati, intimidazioni, richieste estorsive, accaparramento di appalti e sub-appalti, contiguità con il mondo politico ed amministrativo, nel quale vengono gestite le attività delittuose e il reinvestimento dei relativi profitti, avanza un nuovo modello. Quello della presenza non strutturata e silenziosa, che si concretizza nella presenza di un nucleo, anche consistente, di esponenti della ’ndrangheta, che operano in favore della ’ndrina di riferimento ma che, tuttavia, non solo non si costituiscono formalmente in "locale" (vale a dire una cellula strutturata sul territorio composta almeno di 50 affiliati) ma che non svolgono neanche le tipiche attività delittuose dell’organizzazione mafiosa di appartenenza, limitandosi, invece, a gestire, in modo discreto, gli affari per conto dell’organizzazione. «In pratica, in tali casi, e ancora una volta il fenomeno si realizza in modo simile sia in Italia che all’estero - scriverà a fine 2013 il sostituto procuratore nazionale Francesco Curcio nel consegnare la propria relazione al capo Franco Roberti per l’annuale Rapporto di fine anno della Dna - la ’ndrangheta, attraverso propri uomini stabilmente presenti in quel territorio e che si guardano bene dal costituirsi in "locale", si limita a gestire attività di riciclaggio e reimpiego dei capitali ’ndranghetisti. Si determina, così, una vera e propria mimetizzazione degli ’ndranghetisti nel tessuto sociale in cui operano che è assolutamente funzionale allo svolgimento del tipo di attività illecita - che deve passare inosservata - da svolgere in quel contesto più o meno lontano dalla "casa madre". Un sistema come questo non potrebbe reggere e moltiplicare i propri affari se dietro non ci fosse quella che, impropriamente, viene definita "zona grigia". Un’espressione vetusta, superata. Non da ieri. Almeno dal 1969 quando, come ricorda ancora Gratteri, ci fu «l’evoluzione della ’ndrangheta, avvenuta con una rivoluzione interna alla ’ndrangheta stessa, grazie alla creazione della Santa, che altro non è se non la possibilità per uno ’ndranghetista di essere affiliato anche alla massoneria deviata. Questo è servito alla ’ndrangheta per avere contatti con i quadri della pubblica amministrazione e, quindi, con medici, ingegneri e avvocati».
Un plotone di professionisti, ai quali oggi possono essere aggiunti ragionieri, commercialisti, consulenti d’azienda, esperti finanziari, notai, giornalisti, tutti insieme appassionatamente in grado di spianare la strada all’infiltrazione nel mercato dell’economia (oltre che nella società). Non è un caso che la gola profonda abbia fatto i nomi di alcuni noti professionisti, specialisti del settore (alcuni dei quali già incappati in indagini delle Direzioni distrettuali antimafia di Torino, Milano e Reggio Calabria, altri finora nell’ombra), che non disdegnano, per non farsi mancare nulla, anche collegamenti con la mafia russa. Del resto il riciclaggio non può certo curarsi dei confini geografici, nazionali o internazionali che siano.
Roberto Galullo, Il Sole 24 Ore 28/8/2014