Riccardo Ruggeri, ItaliaOggi 28/8/2014, 28 agosto 2014
ANCHE AUGUSTO AVEVA UN CERCHIO MAGICO MA CHI NE FACEVA PARTE DURAVA UNA SOLA STAGIONE. POI VENIVA LIQUIDATO CON RICCHE PREBENDE. MA, FUORI!
Caro Renzi,
le racconto, a modo mio, la storia di Augusto. Nacque da Ottavio (brasseur d’affaires) e da Azia (parente di Giulio Cesare e di Pompeo). Comprese già da adolescente che per ottenere, e mantenere, il potere bisognasse capire gli uomini, e al contempo essere un grande attore: infatti la sua vita fu una recita ininterrotta. Come deve essere per i leader. Marco Antonio era un grande soldato, ma si fece abbindolare da Cleopatra. Augusto proiettò su stesso il caso e concluse: mai sottostare alla schiavitù del sesso. La tragica fine del divo Giulio gli insegnò come per governare bisognasse indossare la maschera dell’umiltà e della convenienza. Lo fece. Insomma, era un vero, freddo professionista del potere.
Capì fin da giovane che per primeggiare non è sufficiente la forza. Ci vogliono quattro talenti, spesso incompatibili fra loro: volontà, astuzia, ingegno, diplomazia. Di tutte le arti nobili la più importante, che non si può imparare dai precettori ma deve essere coltivata da noi stessi, è «conoscere gli uomini». Soprattutto saper sfruttare le loro virtù, i loro limiti, i loro vizi, rivoltandoli tutti e sempre a proprio vantaggio. Giulio Cesare, suo zio, che era un leader autentico, lo capì subito e lo scelse come suo erede, in luogo di altri suoi collaboratori, spesso ricchi di successi, di medaglie, di onori.
Augusto era molto ricco di famiglia, lo divenne immensamente con l’eredità dello zio, ma il denaro lo usava non per se, ma per corrompere le coscienze altrui. Ereditò una Roma di mattoni, la lasciò fasciata di marmi pregiati. Usò il ferro e il fuoco per riportare la pace, ma finse di proteggere gli artisti (Virgilio, Ovidio, Orazio, Livio, Properzio), purché esaltassero la «sua» Roma. Tutti lo fecero, supinamente. Capì che, per mantenere il potere, bisognava usare, in tutte le sue declinazioni, il verbo «sedare». Lo fece, nei riguardi del popolo, dell’aristocrazia, degli intellettuali. Fu sempre cauto nel parlare, sempre deciso nel fare.
Fu soprattutto un grande attore: mai volle che lo invocassero come Re o Imperatore, finse sempre di essere semplicemente un primo fra pari, anche se era intimamente convinto di non essere pari a nessuno. Accettò benignamente che lo chiamassero Augusto (nell’accezione di autorevole), gli intestassero la città di Aosta, e il mese d’agosto. Finse per tutta la vita di essere un «servitore del popolo», volle che quelli che lo circondavano («il cerchio magico») durassero una sola stagione, liquidati con ricche prebende, ma via, fuori! Lui durò 30 anni, essendo uomo prudente, fuori Roma tenne sempre pronte 30 legioni, armate fino ai denti. Sul letto di morte invocò l’ultimo applauso della plebe e degli intellettuali. L’ottenne.
Mi pare che in questo cameo ci siano molti spunti di riflessione, se può esserle utile è suo, caro Renzi. «A gratis», come si dice (colpevolmente) a Torino.
Riccardo Ruggeri, ItaliaOggi 28/8/2014