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 2014  agosto 28 Giovedì calendario

FLAT TAX

La formula magica dell’estate 2014 è «flat tax»: tassa piatta, un’aliquota unica su redditi di persone fisiche e società. Nel mondo, oggi, l’adottano una quarantina di paesi. Lo scorso marzo la Spagna di Mariano Rajoy ha introdotto una flat tax biennale sui contributi per ogni nuovo assunto a tempo indeterminato, riducendoli a un costo forfettario di appena 100 euro mensili. Risultato? Nei primi tre mesi ha creato 110 mila posti. Adesso in Gran Bretagna i conservatori di David Cameron stanno discutendo di un’aliquota unica sui redditi al 31 per cento. Da noi, con un documento del «think tank» di Renato Brunetta, il 14 agosto Forza Italia ha rilanciato l’ipotesi di un’aliquota piatta tra il 22 e il 23 per cento. E Silvio Berlusconi intende farne una piattaforma unificante con la Lega Nord, che nell’ultimo congresso di luglio ha ipotizzato una sua flat tax al 20 per cento, e con il Nuovo centrodestra.
Ma funzionerebbe in Italia un sistema del genere? E perché, invece, le politiche fiscali europee non riescono a risollevare le sorti del continente? Panorama lo ha chiesto ad Alvin Rabushka, 74 anni, l’economista statunitense che della flat tax è l’inventore.
Professor Rabushka, l’economia europea è ferma. Secondo lei in che cosa sta sbagliando l’Unione?
«L’Europa nel suo insieme soffre per un eccesso di spesa pubblica, ma soprattutto per una fiscalità troppo elevata, per una burocrazia soffocante, per mercati del lavoro spesso iperregolamentati e per la sua valuta: l’euro. Che deve andare bene a tutti gli stati europei, obbligatoriamente, mentre invece ogni paese dell’Unione ha esigenze diverse».
Ma perché non funziona il rigore imposto da Bruxelles?
«Io proprio non vi capisco, voi europei. Che cosa diavolo
significa cianciare di "rigore di bilancio" mentre alcuni paesi dell’Unione spendono metà del loro Prodotto interno lordo e altri sono indebitati per cifre superiori al Pil? A quel punto l’accumulo di debito pubblico è ingestibile e pretende tasse sempre più alte, tagli draconiani della spesa, oppure una botta d’inflazione, e solo per cercare di ridurre il peso di quel debito.
Scavando, scavando, l’Europa si è lentamente ficcata in un profondo, disastroso «buco economico»: ora solo una profonda revisione delle vostre politiche può riportarvi alla crescita».
E che cosa dovrebbe fare l’Unione, per tornare a crescere?
«Dovreste tornare in fretta alle politiche degli anni Sessanta e Settanta: tagli alla spesa, tasse più basse, meno burocrazia, e controllo nazionale sulle valute».
Intende dire che l’Europa dovrebbe fare a meno dell’euro?
«Sì, esattamente».
Ma i tagli di spesa non potrebbero bastare, da soli?
«Ridurre la spesa pubblica per attenuare la pressione fiscale, nella migliore delle ipotesi, potrebbe rappresentare una soluzione parziale per la stagnazione. Ma le vostre tasse vanno tagliate, i vostri mercati hanno bisogno di essere liberalizzati, e tante vostre imprese pubbliche vanno privatizzate. L’"economia sociale di mercato" così apprezzata dalla vostra classe politica, si è rotta sotto la mano pesante dei vostri governi. E, purtroppo per voi, non può più essere riparata».
Lei lanciò l’idea della «flat tax» all’inizio degli anni Ottanta: crede ancora che potrebbe essere la soluzione per i paesi più industrializzati dell’Europa occidentale?
«La primissima proposta che avanzai con Robert Hall risale al 1981. Oggi, anche se sono passati 33 anni, resto convinto che imprimerebbe un’eccezionale spinta all’occupazione, all’accumulazione e agli investimenti in tutte le grandi economie europee: quelle stesse che oggi sono invece mortificate da un’intollerabile pressione fiscale».
Perché ne è così certo?
«Perché rispetto all’attuale tassazione progressiva, presente nella maggior parte dei paesi europei, la flat tax è più semplice, più trasparente, più facile da gestire. In più accelera occupazione e investimenti. Del resto, sono proprio questi i motivi per cui oltre 40 stati l’hanno adottata…».
Insomma: lei è convinto che oggi una flat tax potrebbe e anzi dovrebbe essere applicata all’Europa, e anche all’Italia?
«Certo che sì. Anzi, mi sono entusiasmato alla notizia che in Italia due partiti politici abbiano da poco proposto una flat tax per dare una svolta all’economia e per tornare a creare lavoro. Io stesso, in passato, ho lavorato con alcuni esperti italiani».
E quali caratteristiche tecniche dovrebbe avere?
«Un’aliquota unica al 15 per cento sui redditi delle persone fisiche e delle persone giuridiche. Con esenzioni per i redditi sotto i 20 mila euro».
Potrebbe mai reggere un’aliquota così bassa? Il gettito fiscale si ridurrebbe drasticamente.
«Non è così. Perché tutta l’economia ripartirebbe impetuosamente. Si creerebbe in breve tempo 1 milione di nuovi posti di lavoro. Ed emergerebbe anche l’evasione fiscale, perché crollerebbe la convenienza a non dichiarare. In più, moltissime aziende straniere verrebbero a investire da voi. Anche i consumi ripartirebbero alla grande. E calerebbero i costi della pubblica amministrazione».
Lei traccia un quadro idilliaco. Però…
«Però cosa? Ho visitato l’Italia tante volte: nel 1967, nell’81, nel ’94, nel 2004 e anche pochi mesi fa. Il problema è che la vedo sempre uguale a se stessa. In passato per il vostro Paese avevo ipotizzato un’aliquota al 25 per cento. Oggi credo servirebbe una frustata d’energia ancora più forte. Un sistema come
quello di Hong Kong, dove la flat tax è al 15-16. È un sistema contagioso: più t’impegni, più guadagni, più sei invogliato a lavorare, a produrre. E a vivere. Sa che in Italia, oggi, ci sono circa 10 milioni di persone ignote al fisco?».
Davvero non crede che un sistema con un’aliquota unica
al 15 per cento sarebbe insostenibile?
«Insostenibile? Al contrario: conti alla mano lo Stato ci guadagnerebbe. Perché semplificazione e riduzione delle imposte farebbero aumentare le entrate: sia per l’emersione del "nero", sia per l’aumento esponenziale di produzione e consumi».
Se non c’è un ostacolo tecnico, ce n’è comunque uno politico: nessun partito di sinistra ha mai mostrato favore nei confronti di una flat tax.
«Ed è un errore. Perché una flat tax avrebbe l’effetto di sollecitare il business, ridurrebbe l’evasione e l’elusione
fiscale, sarebbe un tonico per l’economia nel suo insieme. Parlare sempre di eguaglianza e d’ingiustizia sociale, come fanno a sinistra, non ha senso mentre tutto intorno stagnazione economica o recessione creano disoccupazione. Gli obiettivi di una seria politica economica, di destra come di sinistra, dovrebbero essere tre: crescita, crescita, crescita».
Ma lei crede davvero che in Italia il centrosinistra potrebbe mai apprezzare la sua idea?
«No. Anzi, temo che purtroppo cercare il sostegno della sinistra alla flat tax sia una grossa ingenuità, e anche un errore di prospettiva. Ogni partito che abbia alle sue origini un’ideologia in qualche modo affine al socialismo punta inevitabilmente ad altro: punta a imporre alti livelli di tassazione sulle fasce più ricche della popolazione e alla redistribuzione del reddito. Del resto, questo è il suo mezzo per incassare il voto delle fasce meno abbienti
dell’elettorato, destinatarie di quei trasferimenti».
E allora?
«Allora resta comunque altro da fare: per esempio mobilitare i giovani. E fare capire a tutti che una flat tax produrrebbe eccezionali benefici per tutti gli italian»i.
Secondo lei quale altra tassa indiretta dovrebbe sopravvivere, accanto alla flat tax, se mai venisse adottata in un paese come l’Italia?
«La flat tax è tesa a prendere il posto di ogni altra tassa diretta sui redditi delle persone fisiche e delle imprese. Ma tutte le altre tasse indirette e le accise (per esempio le tasse sui carburanti, ndr) dovrebbero restare: certo, l’Iva potrebbe essere ridotta per rilanciare i consumi. E questo inevitabilmente imporrebbe un taglio alla vostra spesa pubblica».
Professore, ma stiamo parlando di sogni o di realtà?
«Sogni? Mettiamola così: l’Italia è in una fossa disastrosamente profonda. Oggi è arrivata l’ora di smettere di scavare. E io vi consiglio di prendere la mia scala».