Marco Palombi, il Fatto Quotidiano 27/8/2014, 27 agosto 2014
STORIA DEL MOTO PERPETUO: MINISTRI, SCUOLA E RIFORME
Ora, buona ultima, è arrivata Stefania Giannini: riformerà la scuola. Anzi farà la rivoluzione, dice. Per la precisione la rivoluzione 2038, tanto lunga è la gittata della sua visione. Nessuna sorpresa, per carità, la riforma della scuola è consustanziale al ruolo di relativo ministro: appena arrivano nel palazzone di viale Trastevere li prende una smania di cambiamento. Tutti riformano o almeno ci provano: è il moto perpetuo, ma sul posto. La faccenda iniziò con Michele Coppino, anno 1877, governo Depetris: fu questo professore albese a istituire la scuola elementare obbligatoria e gratuita. La pistola in mano ai ministri di Roma la mise però qualche anno dopo Giovanni Giolitti, che fece della scuola un servizio statale sottraendola ai Comuni. Era il 1911 e tempo una decade arrivò la riforma più persistente (e pure “la più fascista”, almeno a stare al Duce): quella di Giovanni Gentile, basata sul “doppio canale” tra studenti destinati al liceo e quelli destinati alla zappa, peraltro malamente echeggiata da certe parole della Giannini sul rapporto tra scuola e impresa. D’altronde, Gentile è una delle vette del conservatorismo italiano e l’altra no.
Bizzarramente, va ricordato, la “riforma fascistissima” portò pure l’obbligo scolastico a 14 anni, seppure mai norma fu più negletta nella storia d’Italia. E mica solo durante il regime, pure nei primi tre lustri della Repubblica si fece finta di nulla nonostante l’articolo 34 della Costituzione: Guido Gonella, primo ministro dell’Istruzione, democristiano come quasi tutti i successori, ci provò fino al 1951 a fare la sua riforma, ma agli italiani toccò aspettare il centrosinistra per centrare l’obiettivo (nel 1962-63 - regnante Luigi Gui - fu disegnata la scuola elementare e creata la “media unica”). Ecco, la stagione delle riforme vere in Italia finisce più o meno qui: si possono aggiungere i “decreti delegati” del 1974, che imposero nel governo della scuola la rappresentanza di personale non docente, genitori e studenti. Oppure la creazione della figura dell’insegnante di sostegno (1977). In entrambi i casi, a viale Trastevere c’era Franco Maria Malfatti, Dc di rito fanfaniano. Da allora, all’ingrosso, siamo al delirio ottativo: riforme che abrogano riforme, leggine spacciate per riforme, tagli chiamati rivoluzione.
Triste, per dire, fu il caso della professoressa Franca Falcucci, che passò cinque anni difficili al ministero della Pubblica istruzione con Craxi e Fanfani al governo. Curioso che la riforma della “secondaria superiore” che prese il suo nome in realtà non l’avesse scritta nemmeno lei: era un avanzo della precedente legislatura che la ministro fece proprio e finì impantanato alle Camere fino a sparire dai radar. Migliaia di studenti, intanto, in piazza intonavano “Ucci ucci ucci / sento odore di Falcucci”. All’uomo che nella successiva legislatura prese la guida dell’Università, Antonio Ruberti, andò peggio: la sua riforma - che poi è quasi quella che c’è adesso, compreso il doppio livello di laurea - scatenò un’opposizione fortissima. Quel movimento lo chiamarono “Pantera”. Intanto il collega dell’Istruzione, Giovanni Galloni, fronteggiava la rivolta degli studenti medi: aveva annunciato la solita “rivoluzione”. Non la fece.
La Seconda Repubblica, poi, è stata un delirio di riforme al termine delle quali la scuola italiana è di certo più povera e male in arnese, ma non così diversa. Rosa Russo Iervolino portò a casa poco e niente (voleva l’autonomia degli istituti e il “decreto taglia-classi”, un classico), a parte una storica fischiata a Venezia da cui dovette difenderla Oscar Luigi Scalfaro. Francesco D’Onofrio, primo governo Berlusconi, si limitò ad abolire gli esami di riparazione a settembre. Luigi Berlinguer e Tullio De Mauro, invece, presentarono e riuscirono a far approvare una corposa rivoluzione dei cicli scolastici, più la solita autonomia e amenità varie.
Bene, si dirà. Mica tanto: appena arrivata a viale Trastevere Letizia Moratti abrogò la Berlinguer per fare la sua di grande riforma. Quella delle “tre i” di Berlusconi, che però fu più che altro la restaurazione del vecchio ordine con qualche taglio, accorpamenti vari, gran sperpero di managerialità. Non è durata, però. Tornato Prodi a Palazzo Chigi, Beppe Fioroni abrogò a sua volta la Moratti e, per sovrammercato, reintrodusse pure gli esami a settembre.
L’ultima rivoluzionaria è stata Mariastella Gelmini: in realtà quella riforma è più di Giulio Tremonti, al ministero si ingegnarono solo per far funzionare la macchina in presenza di tagli devastanti. La trovata più famosa fu il ritorno al “maestro unico” alle elementari. Più che uno sguardo sul futuro, il Piccolo mondo antico. Ora, dopo un paio d’anni di pausa, si torna alla rivoluzione permanente. D’altronde i ministri dell’Istruzione governare non governano, almeno li si faccia riformare.
Marco Palombi, il Fatto Quotidiano 27/8/2014