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 2014  agosto 27 Mercoledì calendario

IL MEDITERRANEO IN GUERRA E LE SUE VITTIME CIVILI

L’atroce contabilità della morte - la morte evitabile, la morte non naturale - produce a volte accostamenti e coincidenze che dovrebbero farci riflettere. E’ di ieri il dato fornito dall’Unhcr, l’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu, secondo cui nel corso del corrente anno quasi 1900 esseri umani sono affogati nel Mediterraneo - nonostante i salvataggi in mare dell’operazione «Mare Nostrum» - nel tentativo di raggiungere le coste italiane. Pochi giorni fa le autorità sanitarie di Gaza avevano fornito il dato delle perdite umane, in gran parte civili, prodotte dai bombardamenti israeliani: poco più di 1900.
Soltanto tre anni fa, in un libro di successo, Il declino della violenza, Steven Pinker - confutando le visioni di un passato idilliaco - dimostrava, con dati statistici alla mano, che in realtà il mondo contemporaneo ha fatto registrare la riduzione della violenza sia a livello individuale sia collettivo. Anche se la tesi di Pinker rimane valida - soprattutto se pensiamo alla seconda metà del XX secolo, cioè al periodo successivo a due guerre mondiali, la Shoah e il Gulag - fa un certo effetto, oggi, leggere il sottotitolo dell’edizione italiana, secondo cui la nostra «è probabilmente l’epoca più pacifica della storia».
Lasciando da parte le statistiche, sembra imporsi oggi una riflessione più qualitativa che quantitativa, nel senso che dobbiamo cercare di capire la natura dei conflitti dei nostri giorni. Conflitti molteplici, con soggetti diversi, condotti da alleanze variabili e talora imprevedibili ma anche con sostanziali collegamenti e vaste ripercussioni.
Quanti, fra i disperati che cercano di attraversare il Mediterraneo su patetiche imbarcazioni sfuggono da conflitti, dalla Siria al Sudan? Quello che è certo è che non si tratta soltanto di emigranti economici, ma anche di persone che sulla base delle norme internazionali avrebbero il diritto di essere accolte come rifugiati.
Vi è di più: se si considerano in sequenza le guerre, da quelle più antiche a quelle del XXI secolo, quello che è certo è che le perdite fra i non combattenti sono aumentate, e continuano ad aumentare. I civili ormai non sono «perdite collaterali» ma, come stiamo vedendo nell’offensiva dei jihadisti dello Stato Islamico, bersagli principali.
Con la fine della Guerra Fredda e del rischio di un Armageddon nucleare, si è diffusa una ragionevole speranza che non ci sarà una Terza Guerra Mondiale, ma ha fatto bene Papa Francesco ad ammonirci sul fatto che quello cui stiamo assistendo - nel Mediterraneo ma non solo - è «una Guerra Mondiale a pezzi».
Dobbiamo chiederci a questo punto cosa stia veramente accadendo, non certo per trovare una spiegazione unica ai singoli conflitti - possibile soltanto con le più demenziali teorie cospirative - ma per capire perché i problemi, le divergenze, le differenze, trovino con inquietante regolarità sbocchi violenti.
Quello che ci sembra stia avvenendo è il prodotto di un duplice processo disgregativo. Il primo si riferisce al sistema internazionale, non più bipolare come ai tempi della Guerra Fredda, non certo unipolare dati i limiti della potenza americana e non ancora multipolare, dato che Paesi come Cina, India, Russia e Brasile non sembrano ancora in grado di esercitare una funzione di governance sistemica.
Il secondo, ancora più grave nei suoi effetti, è la crisi generalizzata dello Stato-nazione, prodotta da una globalizzazione che ha accelerato le comunicazioni, aumentato la mobilità finanziaria, fatto cadere frontiere economiche e protezionismi ma non ha costruito istituzioni e regole, non ha garantito partecipazione. Localismo, tribalismo, religione vissuta come identità piuttosto che come fede hanno sostituito il riferimento allo Stato, sempre meno in grado di fornire un efficace contesto partecipativo a individui e gruppi che ormai ripiegano sull’autotutela in ambiti più omogenei. Nel mondo sviluppato la crisi dello Stato si sviluppa in modo critico ma non necessariamente violento (pensiamo alle spinte separatiste dalla Scozia alla Catalogna), ma nelle zone meno sviluppate sia politicamente sia economicamente i gruppi regionali, etnici o religiosi si scontrano per la ripartizione delle risorse e del potere in un gioco a somma zero che finisce per tradursi in uno scontro violento.
La mostruosa violenza collettiva del XX secolo era il prodotto dello Stato totalitario, uno Stato impegnato nella repressione di qualsiasi diversità, di qualsiasi autonomia della società civile. Ancora oggi lo Stato, laddove non ci sono democrazia e libertà, è capace delle peggiori violenze. Ma - e gli avvenimenti dei nostri giorni in Medio Oriente ce lo dimostrano - l’orrore della violenza si produce anche nel polo opposto del rapporto fra Stato e società. Sia lo Stato onnipotente sia lo Stato fallito o addirittura disgregato producono la calamità della violenza, la violazione massiccia di diritti umani, l’esodo di milioni di persone direttamente minacciate di sterminio e persecuzione.
Al di là delle singole situazioni politiche, delle motivazioni storiche, delle ingiustizie, dei regimi, siamo di fronte a un problema complesso, ad un difficile passaggio di civiltà che dovrà impegnarci nella ricerca di un diverso assetto politico sia all’interno degli Stati, che sopravviveranno solo se sapranno essere plurali, sia in un sistema internazionale che oggi in realtà appare da costruire piuttosto che ricostruire.
Roberto Toscano, La Stampa 27/8/2014