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 2014  agosto 27 Mercoledì calendario

NEL QUARTIER GENERALE DEI PESHMERGA “ERAVAMO IN UN ANGOLO ORA SIAMO I SALVATORI”

ERBIL
Al ministero dei peshmerga ieri erano indignati dalla notizia che il Da’ash-Is avesse ripreso la diga di Mosul. «È del tutto falso», dice l’ufficiale portavoce, Helgurd Hikmet Mela Ali, 44 anni, che mi riceve con un colonnello suo collega, Shekh Bakhtyar. Chiedo delle armi promesse dal governo italiano: «Nemmeno una cartuccia, finora. Sono arrivate solo da americani e francesi». I peshmerga sono 150 mila, dice, più una riserva di uomini (e donne) in età, senza addestramento militare ma con una pratica partigiana. La forza curda è a mezza strada fra l’aspirazione a un esercito regolare (ci sono due scuole militari, a Zhako e a Suleymaniyah) e formazioni partigiane: legate, queste, ai due partiti maggiori, il Pdk di Barzani e il Puk di Talabani, e alla loro prevalenza territoriale.
Dall’avanzata d’agosto dell’Is su Mosul e sul Sinjar pesa un’onta grave sulla prodezza dei peshmerga: di non aver opposto una resistenza sufficiente abbandonando cristiani e yazidi alla caccia jihadista. L’epico salvataggio di decine di migliaia di yazidi dal Sinjar, nel momento del collasso peshmerga, era stato soprattutto opera dei curdi del Pkk del campo di Makhmour e di Siria, che hanno attraversato la frontiera e l’hanno ripassata per scortare i fuggiaschi. «L’evoluzione del Pkk è importante, dentro e fuori dalla Turchia». Non sanno confermarmi se consiglieri americani a Sinjar e Pkk, nonostante la sua iscrizione nell’albo dei “terroristi”, abbiano a loro volta collaborato. «Avevamo armi inadeguate, e non ci eravamo aspettati un’aggressione così feroce. Dovreste ricordare che, dopo averci sempre tenuti in un angolo, il mondo si aspetta che assicuriamo un confine di 1300 chilometri coi nostri vecchi kalashnikov russi. Il Kurdistan non ha nemmeno un elicottero. La zona di Mosul è sunnita, e l’avanzata dell’Is non sarebbe avvenuta senza l’esasperazione dei sunniti contro il governo di Maliki, e l’appoggio degli apparati dissolti del Baath e dell’esercito, che vedono nell’Is degli avventurieri provvisori (per di più venuti dalla Siria) che gli offrono un’occasione di rivalsa. Sanno che sono terroristi, ma l’odio per Maliki per ora è più forte. Oggi comunque ci sono due comandanti nostri in prigione per quella fuga dei primi giorni. Dopo il Sinjar, e la caduta di Mahmour e Gwer, c’era demoralizzazione nelle nostre file. E il fatto che abbiamo riconquistato le posizioni perdute, spesso con gli stessi uomini, mostra che quell’episodio è superato».
Un altro ufficiale che mi accompagna al cambio turno di Gwer dice che i responsabili della ritirata arrestati e sotto processo sono tre, i capi della sicurezza e del Partito della zona, e un generale dei peshmerga Pdk. Le punizioni sono poco riguardose, si direbbe: lunedì hanno coinvolto un altro vicecomandante della tribù di Barzani. È vero, riconoscono tutti, che una forza armata composta da uomini giovani cresciuti ormai in città che godono, dal 2003, di una dolce vita, non risponde più all’epopea dei peshmerga delle montagne, nutriti di morte, persecuzione, esilio. I peshmerga alternano 14 giorni di servizio e 16 di ritorno alla vita civile. Bagdad ha sempre mancato agli accordi sui finanziamenti e badato a tenere al bando i curdi. Ora il governo curdo ha deliberato di destinare per il nuovo anno dai proventi del petrolio una quota adeguata all’esercito. Questi singolari combattenti sono così sottopagati — più o meno 400 dollari al mese — che si mantengono col doppio lavoro. Uno mi ha portato in taxi da Erbil a Dohuk, tenendo per tre ore a tutto volume gli inni di Radio Peshmerga: quando sono sceso ero pronto a invadere la Siria. Nel 1946, nella prima effimera repubblica curda di Mahabad, il presidente Qazi Mohammed, il poeta Hemn, politici e intellettuali, erano seduti a cercare una denominazione degna al soldato curdo. Dopo ore senza esito, entrò il servitore del tè e chiese di che cosa discutessero: «Chiamateli peshmerga». Letteralmente «di fronte alla morte», pronti alla morte (ricordatevi dell’inno di Mameli: «Siam pronti alla morte...»).
Quanti sono i caduti nelle file dei combattenti? «Non pubblichiamo le cifre, in un momento così teso: sono tanti, e tanti i feriti». Chiedo di Amerli, dove migliaia di civili, turcomanni sciiti, soccombono da mesi a un assedio spietato: è vero che Bagdad sta per muovere 2.000 suoi soldati? «Non posso dirlo, ma c’è un accordo per il soccorso». Pesano ancora molto le diffidenze fra seguaci del Pdk e del Puk? «Oggi c’è un’unità maggiore, e sarebbe suicida se fosse altrimenti. Quella è la nostra cattiva eredità, e dobbiamo fare di più per liberarcene. Dobbiamo sciogliere il nodo che stringe la politica e le forze armate». Sono unanimi i miei interlocutori nel dare per finita l’unità dell’Iraq: «Non è mai cominciata». Non trovate nessuno in Kurdistan, e, credo, in tutto l’Iraq, che ci creda. Credono alla spartizione in tre, molti ci lavorano forte. Sciiti e sunniti, divisi da una guerra spietata che si crede teologica, devo- no giocarsi la Bagdad dimezzata. Sunniti del califfato e sunniti che non so come chiamare — certo non moderati, tanto meno quando saccheggiano le case dei loro vicini trucidati e cacciati — si giocheranno la loro parte.
E il Kurdistan? «Noi dobbiamo comportarci come se fossimo uno Stato. Ci sarebbe bastata l’autonomia, Bagdad l’ha tradita. Per la faziosità sciita di Maliki eravamo sunniti e curdi, due pecche gravi. Da noi le altre religioni vivono o cercano scampo l’intera geografia è travolta dall’avvento del Da’ash. Combattiamo davvero anche per gli altri, siamo un’isola che vuol essere democratica e pacifica. Noi non minacciamo, la pace è il nostro interesse». Gli americani intervengono nei vostri collegi militari? «No». Oggi, mercoledì, saprò poi, è in programma un incontro di vertice fra americani e curdi per la cooperazione militare. Inoltre, la ripresa degli attentati, come a Kirkuk, rafforza le misure antiterrorismo. «La guerra oggi è davvero bizzarra », dicono i giovani peshmerga col volto coperto, più per polvere e smog che per il segreto. «Si fa anche coi telefonini. Noi siamo su Facebook, coi nostri nomi e le facce, e magari pubblichiamo le foto e i video della prima linea: un’intelligence involontaria e ingenua per i nemici. C’è stato bisogno di ripulire i social».
Adriano Sofri, la Repubblica 27/8/2014