Cecilia Zecchinelli, Corriere della Sera 27/8/2014, 27 agosto 2014
RAID IN LIBIA, GLI USA: «INTERFERENZE» DI EGITTO ED EMIRATI
Due governi, due premier, due parlamenti: gli «islamici» a Tripoli, in teoria decaduti, e i «laici» appena eletti, sempre in teoria con sede a Bengasi ma costretti a fuggire a Tobruk. Una terza entità rivale: il Califfato dei qaedisti a Bengasi. E una sola domanda che unisce la Libia e la comunità internazionale: che fare? O meglio: l’ex Jamahiriya potrà mettere fine alla guerra civile, alla spaccatura in tre del Paese, da sola?
L’Occidente, America in testa, tutto vuole tranne che tornare in Libia militarmente, con il Medio Oriente in fiamme che già ha costretto il riluttante Barack Obama a rompere i suoi tabù (e rivedere le alleanze) in Siria. E ieri, gli Stati Uniti insieme ai governi di Italia, Francia, Gran Bretagna e Germania hanno infatti «condannato duramente l’escalation di combattimenti e violenze» in Libia. In una lunga nota congiunta hanno chiesto al governo ad interim e alla Camera dei Rappresenti eletta (i «laici» di Tobruk) il «cessate il fuoco immediato, azioni che «soddisfino il bisogno del popolo libico in termini di sicurezza, riconciliazione, prosperità». Ma al di là di queste parole, in fondo scontate, hanno lanciato un messaggio chiaro ai governi della regione, meno riluttanti e anzi determinati ad agire nell’ex Paese nordafricano. «Le interferenze esterne esasperano le divisioni attuali e minano la transizione democratica», concludeva la nota. Apparentemente vaga, la frase si riferisce all’Egitto e agli Emirati e ai raid compiuti in segreto sulla Tripolitania a partire dal 18 agosto dagli aerei di Abu Dhabi, con l’appoggio logistico delle basi egiziane.
Ancora ieri smentite dal Cairo e non commentate dall’emirato leader della Federazione dei sette staterelli del Golfo, le azioni di bombardamento di obiettivi degli islamisti nell’Ovest della Libia hanno risolto poco militarmente (e politicamente) ma molto hanno pesato sulle relazioni già tese dei due Paesi arabi con Washington. Più espliciti della nota diplomatica, vari funzionari dell’amministrazione Obama ieri hanno confermato ai media anglosassoni la responsabilità dell’emirato e del Paese guidato dall’ex generale Abdel Fattah Al Sisi nei raid e ribadito di non essere stati avvisati. Anzi, hanno rivelato, gli Stati Uniti avevano espresso un chiaro dissenso a quell’azione che da più segnali temevano imminente. L’utilizzo negli attacchi di forniture vendute dall’America agli stessi alleati arabi, hanno aggiunto, ha inoltre leso le clausole contrattuali.
Che Al Sisi, già autore di una feroce repressione dell’Islam politico in patria, sia attivo da tempo contro il fronte islamico nel Paese vicino non è una novità. Né lo è che i Paesi del Golfo (Qatar escluso) siano suoi ferventi alleati o meglio suoi ispiratori e finanziatori. Ma i raid su Tripoli e dintorni sono una svolta preoccupante e segnano, tra l’altro, l’emergere di Abu Dhabi come protagonista militare: un ruolo lasciato finora all’Arabia Saudita che questa volta non avrebbe invece agito.
Intanto, all’interno della Libia, le dichiarazioni pubbliche contrarie a «ogni interferenza straniera» si sprecano. Non solo da parte degli islamici di Tripoli che di alleati ne hanno pochi, i soliti Qatar e Turchia poco propensi a muoversi. Anche le autorità di Tobruk ufficialmente le escludono. «Abbiamo bisogno di aiuti stranieri per battere gli islamisti che sono più forti di noi — ha dichiarato il ministro degli Esteri Mohammed Abdel Aziz, in missione ieri al Cairo —, ma non chiediamo certo interventi diretti quanto armi sofisticate per difendere i siti strategici». E l’Egitto ha promesso pubblicamente equipaggiamento militare e addestramento dei soldati libici. Cosa stiano preparando Al Sisi e i suoi alleati, dietro alle quinte, sarà da vedere.
Cecilia Zecchinelli