Imma Vitelli, Vanity Fair 27/8/2014, 27 agosto 2014
NEL REGNO DEI NANI
Nel Sudovest della Cina, tra dolci declivi e colline boschive, sorge un curioso reame. Di qua, la campagna di Kunming, capitale della ridente provincia di Yunnan, con laghi e grattacieli e comuni umani. Di là, oltre il sentiero, un posto speciale, con le casette a funghi e i caminetti rosa e le scalette lillipuziane.
La prima cosa che vedo è il sovrano. È sul palco, solitario, in testa un regale copricapo, sulle spalle un manto d’oro. Cade una pioggia torrenziale e l’uomo non si muove. Osserva, sereno, il nubifragio dall’alto dei suoi 90 centimetri.
«Benvenuti nel Regno dei Piccoli!», declama una voce fuori campo. Segue il racconto epico della vita del più piccolo di tutti, il re: 30 anni di estati sotto i ponti e inverni nelle latrine, e infine la rinascita, sotto questo cielo, «dove ha trovato una famiglia e dei valori!».
Wu Zi Ming, il sovrano, scompare dietro le quinte silenzioso, e io chiedo a una signora con la maglietta rosa che cosa ne pensi. Mi guarda, sputa, e fa: «Mi piace».
Il Regno dei Piccoli è un parco a tema in cui vivono e si esibiscono un centinaio di persone la cui età varia dai 20 ai 50 anni e la cui altezza non può superare i 120 centimetri. A inventarlo, nel 2009, è stato un imprenditore del Sichuan, tale signor Chen Mingjing. Questo signor Chen aveva deciso di lanciarsi nel turismo creando una
Disneyland con farfalle e acrobati per i visitatori che giungono dal lontano Nord a curiosare tra le minoranze del Mezzogiorno. «Ma un giorno, in treno, ho visto due nani», mi dice il signor Chen. «Che pena! Che emozione! Ho subito deciso che avremmo creato un posto per loro».
Il Regno accoglie ogni mese circa 20 mila turisti, e ha suscitato reazioni forti, da parte dei diretti interessati – che sono accorsi a frotte – e delle organizzazioni per i diritti umani, che gli hanno tirato pietre.
C’è chi dice che è uno zoo, una grottesca parata, un ritorno al tempo in cui, nelle corti rinascimentali, il nano era un buffone, un deforme, un trastullo di principi e cardinali. «Certamente il parco vende deformità», mi spiega Zhoo Haibin della ong Propel, di Pechino. «Ma la discriminazione nei loro confronti è bruttissima, soprattutto nelle zone rurali. Dove altro potrebbero trovare lavoro?».
Come in tutte le faccende umane, «c’è un sacco di grigio», mi dice Mak CK, regista di Singapore, che ha girato a Kunming un documentario, Little People, Big Dreams, in uscita nel 2015. «Non si può dire non va bene, e basta. La moralità, il modo in cui vediamo il bene e il male, è filtrato dalla cultura. Ok, è un fenomeno da baraccone, ok non è giusto. Ma che cosa lo è?».
Che non sarebbe cresciuto, lo ha saputo a otto anni. «Me ne sono accorto quando tutti intorno a me crescevano e io restavo uguale. Quando tutti portavano cose, e a me niente resisteva in mano».
Un dolore che non si descrive. «Volevo essere normale. E invece la gente puntava l’indice: nano!». I genitori non gli hanno mai detto niente. «Come fai a dire a tuo figlio: sei deforme?».
La strada l’aspettava. A dieci anni era sui marciapiedi, a mendicare. «Ovunque mi sorprendesse l’oscurità, lì dormivo».
Anni di elemosine, poi l’incontro con un film-maker di Hong Kong, un documentario, scampoli di fama, «l’inizio della mia carriera di buffone». I proprietari di hotel e casinò lo ingaggiavano per intrattenere i clienti davanti al portone. «Il problema della vita, via da qui, è che non sai mai quanto in fretta si stancheranno di te».
Per questo è felice, ora. «Ho un contratto! Il primo. È un sogno. Fuori, è la giungla».
Lisa Liang, la mia guida, dice che tutto questo è molto buddista. La compassione fa parte del contratto sociale. «I più rispettati, nella società, sono i monaci, che non fanno niente, a parte mendicare».
Shandy Sha, la pierre del Regno, ha sostenuto seria che secondo il buddismo tutti i Piccoli della Terra hanno fatto qualcosa di sbagliato nella vita precedente e ora la stanno pagando: sarebbe una questione non di geni, ma di karma.
E quindi se Peng Mei, la ragazza che mi sta davanti, dimostra tre anni, e non venti, è perché nella sua precedente incarnazione chissà che cosa ha combinato.
La guardo. È vestita da angelo, con le ali viola, e una gonna bianca di taffettà. Sembra una puffa, ma è molto più saggia di tante donne in teoria Alte che conosco.
I genitori disegnano giardini tra i grattacieli che oscurano l’orizzonte della nuova Cina; il fratello, alto e bello, fa lo chef in città. Quando hanno saputo, i suoi sono impazziti. «Mia nonna ha suggerito di buttarmi nella spazzatura. È femmina e pure malata, ha detto». Ma l’inferno vero è stato a scuola. «Alle medie, gli altri si allungavano e io no. Tutti ridevano e io volevo morire».
Alla fine della Terza, ha trovato il parco su Internet ed è venuta qui.
«La prima volta che ho visto questo posto ho pensato: “Che strano. Non sono l’unica”. È stato rassicurante».
C’è un altro solido motivo per cui Peng Mei è felice al Regno; egli siede sorridente al suo fianco. Si chiama Zhao Bin Wen, ha 26 anni, è il tecnico del suono e fa pure il cantante. Zhao Bin Wen è soprattutto il marito di Peng Mei; si sono conosciuti qui; un giorno lui si è messo in ginocchio, accanto a un finto drago, e le ha chiesto: «Vuoi sposarmi?».
La madre di Zhao aveva provato a trovargli in paese una moglie Alta.
Pare che le donne molto povere diano la caccia ai nani per diverse ragioni: non le picchiano e una ciotola di riso in qualche modo la rimediano.
Ma lui non ce l’ha fatta.
«Quando l’ho vista, ho pensato: abitiamo mondi diversi. Tutta questa differenza di altezza. Non va bene».
Peng e Zhao sembrano contenti, ma chiedo loro se non li tenti un ritorno nel grande ingrato mondo lì fuori. Si guardano, in silenzio. Lei scuote la testa, lui agita le gambe, lei dice forse un giorno, lui vagheggia di un negozio di telefonini a Guangxi.
Quando arriva il nostro uomo, sono così distratta che quasi non lo vedo. Lin ha 29 anni ed è difficile non notare la sua deforme schiena. Eppure, dopo un paio d’ore in sua compagnia, la gobba diventa parte del suo fascino. Ha un ciuffo biondo che pare un’onda la cui manutenzione lo porta tre volte a settimana dal parrucchiere; pur essendo stato il contabile dei Piccoli, Huang Lin si sente una rockstar.
«Lo stipendio», proclama, «era da fame. Mille yuan al mese!». E poi questa storia che si poteva uscire solo una volta a settimana. «Goodbye».
Oggi Lin ha una sua troupe di otto nani con cui si esibisce in bar e locali, e presto anche in porti e frangiporti della costa.
E che fate? «Balli, danze, magie».
E come va?
«Se sono felice sul palco, e chi mi guarda è felice, allora siamo tutti felici. E non conta nient’altro».