Malcom Pagani, IL settembre 2014, 26 agosto 2014
DISSOLVENZA A VENEZIA
Qualcuno emigra, altri si son trovati bene e restano. Zoccole, nutrie, pantegane. Qui al Lido di Venezia, semplicemente sórze. I ratti li hanno avvistati in fondo all’isola, tra le dune degli Alberoni, nelle spiagge in cui anni fa, con delibera comunale che provocò ovazioni a sinistra e alberghiera disperazione in un’indefinita destra, l’ex sindaco Orsoni – prima di perdere la propria – restituì libertà di transito gratuita a uomini e ciabatte. Ora i topi si sono spostati e zingareschi pascolano felici sugli arenili che un tempo vedevano morire Dirk Bogarde sotto lo sguardo di Visconti e oggi, nel viale intitolato a una gloria nazionale omaggiata con il Nobel, subiscono lo scalpiccìo di un promiscuo traffico di russi, autoctoni, famiglie con il pranzo al sacco e roditori occasionali a loro agio tra le Crocs.
Adesso che persino le scarpe preferite da George Bush assaporano la crisi, per traversare i viali che ospitano il Festival, immaginare i premi che verranno e riconoscere nel profilo dei Leoni in dote la creatura che il Conte Volpi si inventò in pieno Ventennio, non basterebbero trampoli da carnevale veneziano. In Laguna è tutto fermo da un pezzo. Prigioniero il Comune, commissariato in relazione alle conseguenze bibliche del Mose. Abbandonato il progetto del porto turistico più grande d’Europa, la nuova Darsena da mille posti che sarebbe dovuta sorgere a San Nicolò. Sepolto il progetto del nuovo Palazzo del Cinema e immobile lo scheletro del vecchio Ospedale al Mare (acquistato allo scopo, in una complicata partita di giro, dagli amministratori locali) perché dopo aver stabilito a spanne una cifra di 130 milioni di euro per l’edificazione di un Palais che avrebbe dovuto competere con l’omologo di Cannes (la Corte dei Conti segnalò sprechi in tema per circa un terzo della cifra), scavo dopo scavo, nella zona adiacente al Casinò, si trovò amianto in generosa quantità. Chiuso da anni lo storico Hotel Des Bains perché in un panorama di crateri, arresti e schiavettoni, anche la società incaricata di riconvertirlo in appartamenti, la EstCapital SGR, è stata messa in amministrazione controllata e i vecchi arredi (dal trumò del Settecento al frigorifero in finto oro) puoi comprarli in Rete, dal signor Moreno Belloni, o in alternativa spostarti di una ventina di chilometri e andare a toccare con mano la svendita del mito direttamente a casa sua, in località Fossalta di Piave.
In questo orizzonte di sottrazioni, ipocrite doglianze e personaggi da borsa nera costantemente in bilico tra farsa, tragedia e commedia all’italiana, passato tradito e futuro repentinamente tramontato camminano in coppia, indifferenti al contesto, come i Carabinieri. La decadenza del luogo eletto da Lord Byron e D’Annunzio aspetta di mostrarsi al mondo a fine estate come accade con pause impercettibili dal 1932. Le locandine dei giornali esposte fuori dalle rare edicole del Lido presentano l’edizione numero 71 della Mostra sventolando volto e filosofia del direttore Alberto Barbera. Barbera, biellese già al timone tra il 1999 e il 2001 e poi nuovamente alla guida dal 2012 in coda al settennato di Marco Müller, parla di «primato dell’estetica sull’economia» e insieme al suo principale sponsor in Biennale, l’ex ministro e presidente Paolo Baratta, è impegnato a salvare il salvabile, ammodernare l’esistente, razionalizzare gli spazi, sognare duemila metri quadri per impiantare un mercato degno di questo nome che possa competere con l’aggressiva concorrenza di Toronto e – passo più complicato – dimenticare propositi gigantisti, vane promesse della politica, nastri tagliati e pietre poste sul cammino del grande domani diventato preistoria in un amen. Coperto il famigerato buco ed eliminato l’amianto, in attesa di veder sfilare Al Pacino e Naomi Watts e ascoltare la musica della solita rimpatriata di settore sullo "stato" precario del cinema italiano, Barbera si è affidato alla melodia di Alexander Desplat, compositore francese e nume tutelare di una giuria chiamata a valutare l’ultima opera di Iñárritu, il Pasolini di Abel Ferrara o il trittico nazionale. I cuori affamati di Saverio Costanzo, Anime nere, il capolavoro annunciato di Francesco Munzi o il Leopardi di Martone.
Comunque vada, nonostante la gogna popolare del pubblico cinefilo verso i prodotti autoctoni sia solo una e non la più evidente tra le peculiarità festivaliere, non vedremo più Lietta Tornabuoni salvare Citto Maselli (ma non il suo ginocchio) dalle manganellate della Polizia, Zavattini sollevato di peso (con tutta la sedia) da quattro gendarmi o in stagioni già più quiete, Michele Placido, accusato di fare film con Berlusconi, chiedere retoricamente a una cronista: «Mi spiega lei da chi cazzo mi dovrei far finanziare?». Non sbarcano più dalle lance Ciriaco De Mita e Franco Carraro e la Mostra non è più "fascista e borghese" come – per dirla con Arbasino – gridavano i lugubri "sloganatori" del Sessantotto, ma come ogni altra cosa intorno a sé, è diventata post-ideologica. Da una parte il cangiante valore dei film. Dall’altra il panorama del Lido. I soliti ristoranti modesti e carissimi. La solita ruvida ospitalità in cui il cliente ha sempre il sinistro sospetto che a dargli un nudo pasto gli stiano facendo il più prezioso tra i favori. I soliti sponsor che celebrano serate di gala in cui, come nel Caro Diario di Moretti, non sarebbe lunare veder comparire un simil Helmut Berger «direttamente in mutande». I soliti alfieri del carrozzone Rai. I soliti giornalisti che si affollano per la cena inaugurale nella tensostruttura dell’Excelsior e riempiono piatti e tasche per i giorni difficili. E poi, neanche fossimo in un affresco di Rino Gaetano, maschi più o meno forti, spose in bianco, ministri puliti, buffoni di corte e – eterno tributo del Lido a De Sica – ladri di biciclette. «La leghi bene, le rubano», ti dice il noleggiatore, e senza lasciarti altro tempo per scherzare aggiunge furtivo: «Lo fanno, lo fanno».
Pedalando in Via delle Quattro Fontane, accanto alle zanzare, ai villini liberty, agli alberi abbattuti e circondati alla base da un mortuario nastro bianco e rosso, viene in mente che non c’è funerale senza cerimonia. A esser benevoli, come disse Natalia Aspesi, al Lido si respira una vaga aria «di convalescenza». All’ora del desco, gli operai che sudano sotto il sole, esposti al soffio tenue di uno scirocco senza consolazione, si abbandonano come Anna Longhi moglie del fruttivendolo Alberto Sordi in visita alla Biennale ne Le vacanze Intelligenti. Mangiano frittata, bevono familiari di Peroni gelata e pur senza fantozziano rutto libero, in educata pausa dai doveri, sembrano installazioni viventi che ignorano nessi e ragioni del circo in allestimento. Marcello Mastroianni, uno che a Venezia veniva malvolentieri («Mi sento a disagio, incontro un sacco di gente, dottori, commercialisti, degli ometti sconosciuti di cui ti domandi: ma che c’entrano questi con il cinema? Che ci stanno a fare qui? Chi sono?»), piuttosto che sfilare, avrebbe preferito aiutarli con il martello pneumatico. «Io sono un perito edile», diceva Marcello: «quello dovevo fare. Lì dovevo restare. In cantiere, con i muratori. Nessuno mi avrebbe chiesto di essere brillante o di avere personalità. Sarei stato benissimo a costruire palazzine. Un mattone sopra l’altro fa un muro. Non si discute». La logorrea lagunare, Mastroianni l’aveva capito, è una grave malattia. In luogo della sublime sintesi lagunare dell’autore di Ombre rosse («Mi chiamo John Ford e faccio western») o dello stupore infantile dello straordinario e già incanutito Dino Risi («Mi hanno accolto in modo magnifico, non mi aspettavo tanto affetto da parte della gente. Quasi quasi fondo un partito»), il «battimani perpetuo» già infilzato da Tullio Kezich, le grottesche lamentele fine anni Ottanta di chi come Andrea Barzini si scopriva suo malgrado afasico («Che razza di Festival è mai questo? Tutti si occupano di Chiambretti e a noi registi al massimo dedicano tre righe. Tanto valeva restarcene a casa»), la cattiveria di prammatica per la boiata pazzesca in salsa d’anguilla con Valeria Marini o, al contrario, l’immancabile film d’arte di ascendenza turkmena che provoca fughe all’aria aperta, ma su cui è vietato eccepire. Un’omologazione ambientale da riserva indiana così lontana da quella dei Sessanta, quando almeno, di fronte alle citazioni indebite di Amelia Rosselli e alle battute di Monica Vitti incolpevole musa di Antonioni in Deserto Rosso, i colleghi di Michelangelo (qui Lèonide Moguy) qualche eccezione di merito la ponevano («Penso che se si vuole salvare il giocattolo bisognerà orientarsi verso opere più spettacolari, più semplici. Altrimenti il cinema è spacciato»), e comunque distante dalle vivaci edizioni in cui il regista brasiliano Glauber Rocha, rimasto senza coccarde né riconoscimenti, nei ricordi di Tatti Sanguineti «si aggirava scalzo in laguna, con la camicia aperta al quarto bottone, bestemmiando geremiadi di insulti contro la giuria. Suso Cecchi D’amico era la dattilografa di Visconti, il critico Michel Ciment un uomo della Cia e Gillo Pontecorvo, naturalmente, una spia sovietica». Glauber – ricorda Sanguineti che a Venezia porta un bel documentario sul rapporto tra il cinema e Andreotti – beveva, «anche molto, ma la Biennale copriva solo parzialmente gli extra dell’albergo» e a differenza di Fassbinder, il più abile a tagliare la corda un istante prima di pagare il conto, Rocha considerava il perimetro del mondo come il fazzoletto della sua perenne guerra di trincea. Spento anche il fuoco dell’ultima resistenza, Venezia prova a uscire all’aria aperta. Mino Monicelli, su L’Europeo, non le dava eccessive speranze: «La stagione giusta è quella del Festival di Cannes, maggio, quando il clima è energetico o quella di Acapulco, novembre, quando il Messico è splendido e la Sierra esilarante. Ma al Lido l’aria è già marcia d’autunno. A Cannes la cucina è buona, c’è il bal-musette e gli spettacoli con le donne nude. Qui c’è un solo night, ma in compenso organizziamo le tavole rotonde dove siedono tipi zazzeruti che discutono di storiografia e di estetica cinematografica, ma non sanno che il cinema l’ha inventato Charlot con le torte in faccia». Era il 1967. Quarantasette anni fa. A guardare nei ricordi sembra ancora ieri.