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 2014  agosto 26 Martedì calendario

BAGNI TURCHI E AMORI CLANDESTINI, TUTTE LE VITE DI LADY MONTAGU

Non scriviamo più lettere. Quegli strani fogli, che contenevano, sino a qualche anno fa, notizie, riflessioni, considerazioni, racconti di letture, apologhi, giochi, insensatezze, affetto, sono completamente scomparsi. I grandi epistolari di Petrarca e di Leopardi, di Goethe, di Baudelaire e della Woolf, non avranno più eredi. Mi domando dove i biografi del futuro troveranno il materiale per scrivere le loro Vite. In compenso, ci telefoniamo: telefonate spesso interminabili, come quelle di Carlo Emilio Gadda e di Attilio Bertolucci, di Giorgio Bassani e di Elémire Zolla. Erano bellissime: divertenti, spiritose, forse più belle delle lettere perché legate alla grazia e all’istinto della voce parlante. Molto è stato detto, ma non verrà mai più recuperato. Se penso alla letteratura alla quale ho debolmente partecipato dopo il 1950, mi sembra di sentire alle spalle un immenso abisso pieno di parole.
Nel nostro passato è esistita una moltitudine di lettere, spesso raccolte e curate da editori intelligenti. In Inghilterra, Stati Uniti e Francia, queste raccolte conoscono un grande successo: inglesi e francesi adorano il sapore e il profumo della vita vissuta, gli andirivieni della psicologia, come si riflettono negli epistolari. Gli italiani amano poco le lettere e i diari perché, nell’animo, sono avversi ai doni della psicologia, dell’autoanalisi e della conversazione. Oggi possediamo due bellissime raccolte di Mary Wortley Montagu: Tra le donne turche. Lettere 1716-1718 (introduzione di Anita Desai, a cura di Ferdinanda Ivrea, Rosellina Archinto Editore); Cara bambina. Lettere dall’Italia alla figlia 1747-1761 (nell’elegante scelta e traduzione di Masolino D’Amico, Adelphi). Lady Montagu era una straordinaria conversatrice, che toccava tutte le corde dell’emozione, della riflessione e dell’ironia con un incantevole talento narrativo.
Nacque a Londra nel 1689. Era molto bella: piccola di statura, snella, bruna, con un incarnato chiaro, e magnifici occhi dalle molte ciglia, di cui era fierissima: il vaiolo rovinò per sempre la delicatezza della sua pelle. Giovanissima, cominciò a scrivere versi alla maniera di Dryden, Cowper, Aphra Behn; e diventò intima amica di Alexander Pope, il piccolissimo e squisitissimo autore de Il riccio rapito , che le rivolgeva complimenti in versi e in prosa. Si innamorò di Edward Wortley, gli propose di fuggire insieme e di sposarsi a Napoli: la fuga fu meno romanzesca del previsto, perché Wortley arrivò con molto ritardo all’appuntamento, mentre lei attendeva puntualmente l’amato. Malgrado la maledizione del padre, i due passarono la notte nella stessa locanda e si sposarono il 15 ottobre 1712, a Salisbury.
Pochi anni più tardi, Edward Wortley venne nominato ambasciatore presso la Sublime Porta; e i due giovani sposi partirono il 2 agosto 1716 su una nave diretta a Rotterdam. Il soggiorno in Turchia non fu lungo. Ma quei pochi mesi a Sofia, Adrianopoli e Costantinopoli bastarono all’ambasciatrice dalle lunghe ciglia per scrivere splendide lettere in Inghilterra, che ci ricordano le turqueries dell’opera buffa, Il ratto dal serraglio di Mozart o Il Turco in Italia di Rossini. Come in Mozart e in Rossini, «una lunga pace aveva immerso i turchi in una pigrizia universale. Contenti del loro stato, e avvezzi a un lusso senza limiti, diventarono grandi nemici di ogni sorta di fatiche».
Il primo mattino del suo soggiorno a Sofia, Lady Montagu andò a visitare un bagno turco. C’erano quasi duecento donne. I primi sofà erano coperti di cuscini e ricchi di tappeti, su cui sedevano le signore turche: sui sofà successivi stavano le serve: ma nel vestire non c’era nessuna distinzione di rango, perché erano tutte completamente nude, senza nascondere né bellezze né difetti. Avevano la stessa grazia maestosa che Milton attribuì ad Eva: le stesse esatte proporzioni delle Grazie nei quadri del Rinascimento italiano; e la pelle di un bianco splendore era solcata da capelli scuri divisi in molte trecce, che scendevano sulle spalle e la schiena. Alcune conversavano, alcune lavoravano: altre bevevano caffè o sorbetti; molte giacevano negligentemente sui cuscini, mentre le giovani schiave intrecciavano i loro capelli «in molti bei modi». Era il caffè delle donne, dove si raccontavano le notizie degli harem e delle città, scandali, storie fantastiche, simili a quelle che Gérard de Nerval avrebbe ascoltato centoquarant’anni più tardi, nei caffè di Costantinopoli.
Lady Montagu era vestita da amazzone. Le duecento donne nude non rivelarono la minima sorpresa, né fecero un sorriso volgare o un gesto immodesto; ma la accolsero con ogni educazione e cortesia. Per qualche minuto, calò il silenzio. Poi, la dama più «altolocata» invitò Lady Montagu a sedere accanto a lei: un corpo nudo vicino a un folto vestito europeo. Infine, le propose di spogliarsi. «Io — riferì Lady Montagu — mi scusai con qualche difficoltà, e poiché erano tutte così ansiose di vedermi, fui obbligata ad aprirmi la blusa per mostrare loro il mio busto. Ciò le convinse: perché immaginavano che qualche marito violento mi avesse costretto in quella macchina, dove stavo rinchiusa». «Ero incantata dalla loro educazione e dalla loro bellezza — continuò Lady Montagu parlando alla sorella —. Ti posso garantire con tutta sincerità che la corte d’Inghilterra, sebbene io creda che sia la più bella del mondo cristiano, non può mostrare tante bellezze quante ne ho viste io nel bagno turco».
Ad Adrianopoli Lady Montagu indossò per la prima volta il suo vestito turco, che le stava benissimo. Aveva un paio di mutandoni molto ampi, che le arrivavano alle scarpe e nascondevano le gambe con più modestia della sottana; una blusa in garza di seta bianca, che lasciava intravedere la forma e il colore del seno; una vestaglia fino ai piedi, con maniche ancora più lunghe; una fascia alta quattro dita; un ricco broccato di ermellino o di zibellino; un copricapo di velluto o di stoffa leggera, secondo le stagioni. Dovunque trionfava la ricchezza: ricami d’oro, bottoni di diamante, d’oro e di perla, frange d’oro, fasce di diamanti, boccioli di perle rosa e di rubini, gelsomini di diamanti, giunchiglie di topazi. Qualche volta Lady Montagu imitò le compagne: con la matita si corresse le sopracciglia, e si sparse attorno agli occhi uno strato di tintura nera, che a lume di candela rendeva gli occhi ancora più neri.
Le donne turche possedevano molta più libertà di quelle inglesi, perché a nessuna dama di qualsiasi rango era concesso di lasciare la casa senza due veli di mussola: uno copriva il viso tranne gli occhi; un altro nascondeva la capigliatura fino a metà schiena; mentre un ferace giungeva fino alla punta delle dita, avvolgendola, secondo le stagioni, come un pesante cappotto d’orso o un lievissimo mantello di seta.
«Puoi indovinare — scriveva Lady Montagu alla sorella — come tutto ciò le travesta in modo così efficace, che non c’è modo di distinguere la gran signora dalla sua schiava: neppure il marito più geloso può riconoscere la moglie quando la incontra. Questa perpetua mascherata dà alle donne una completa libertà di seguire le proprie inclinazioni, senza pericolo di essere scoperte».
Una mattina decise, insieme alla ambasciatrice francese, di vedere il Sultano che andava alla moschea. Era preceduto da un corteo di giannizzeri con grandi penne bianche sul capo, e da giardinieri reali, con vestiti così colorati che, a distanza, sembravano un’aiola di tulipani in movimento. Sua Sublimità il Sultano era vestito con un abito verde, foderato con una pellicola di volpe moscovita, e cavalcava un cavallo bardato di gioielli. Dietro di lui venivano altri sei cavalieri ingioiellati: mentre dei cortigiani portavano una caffettiera d’oro, una caffettiera d’argento, e uno sgabello d’argento, dove il Sultano potesse sedersi. «Il Sultano ci apparve come un bell’uomo di circa quarant’anni — Lady Montagu scrisse all’Abbé Conti —: aveva l’aria molto gentile, ma con qualcosa di severo nel contegno e gli occhi grandi e neri. Si fermò proprio sotto la finestra a cui eravamo affacciate: probabilmente gli avevano parlato di noi; e ci guardò con grande attenzione, così che noi avemmo il tempo di studiarlo».
***
Il 31 ottobre 1718, Lady Montagu e il marito arrivano a Dover. «Invidio — lei scrisse all’Abbé Conti — la serena pace del cuore della rustica lattaia che, non disturbata da dubbi, ascolta il sermone in chiesa ogni domenica. E, dopo aver visto parte dell’Asia e dell’Africa, e fatto quasi il giro d’Europa, credo che sia molto più felice di noi il gentiluomo di campagna inglese, che, in perfetta buona fede, è convinto che i vini greci siano meno deliziosi della nostra birra forte, che i frutti dell’Africa non abbiano un sapore così buono come le nostre mele renette, e che i beccafichi italiani non valgano una bistecca di filetto inglese, in breve, che non esista un modo perfetto di godere la vita come il nostro, nella nostra vecchia Inghilterra».
Come il «gentiluomo di campagna», Lady Montagu comperò una casa a Covent Garden: riprese la vita di corte, che un tempo amava tanto; e poi si ritirò a Twickenham, sul Tamigi, dove acquistò una casa vicina a quella di Alexander Pope. Ma l’amicizia tra i due durò pochissimo: Lady Montagu fece capire che Pope, Pope il nano, le aveva fatto una appassionata dichiarazione amorosa: lei l’aveva accolto con una risata; e Pope la coprì di insulti volgari e violenti. Molti rimasero amici di Lady Montagu: tra di essi Edward Gibbon; e Voltaire le donò il manoscritto del suo saggio sulla poesia epica, che amava tanto. Il giovane Joseph Spence scrisse di lei alla madre. «Lady Mary è uno dei personaggi più brillanti del mondo, ma bella come una cometa; irregolare e sempre in movimento. È la più saggia, la più imprudente, la più dolce, la più sgradevole, la più affettuosa, la più crudele donna che ci sia al mondo».
Nel 1736, a quarantasette anni, questa donna dolce e sgradevole venne ripresa dallo spirito di fuga. Si innamorò di Francesco Algarotti, un giovane veneziano di ventiquattro anni, omosessuale, amico di Voltaire, autore di un libro fortunatissimo: Il newtonianesimo per le dame . Il 26 luglio 1739 Lady Montagu salpò da Dover: inseguì Algarotti a Venezia, ma questi a sua volta era fuggito a Pietroburgo, poi a Potsdam e infine a Berlino, dove diventò il protetto e forse l’amante di Federico il Grande di Prussia, che lo chiamava «il cigno di Padova». Lady Mary rivide Algarotti a Torino per soli due mesi: poi il fuoco amoroso si spense; e si trasferì a Ginevra, passò in Francia, ad Avignone, dove rimase quattro anni. Nel 1747, il conte Ugolino Palazzi la guidò attraverso la Liguria fino a Brescia, dove abitava la madre. Non fu un accompagnatore galante, perché chiese un grosso prestito e non lo restituì, e le rubò un cofanetto pieno di gioielli.
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Derubata, impoverita, invecchiata, con i profondi segni del vaiolo sul viso, Lady Montagu trovò un’altra volta la quiete, come se la sua vita obbedisse a un gioco di soste e di fughe. A Brescia, nel dicembre 1747, viveva una esistenza solitaria: d’inverno nel castello, d’estate nella cascina, che stava a un miglio dal castello. La sua giornata era sempre uguale. Lady Montagu si alzava alle sei: faceva colazione; lavorava con le sue sarchiatrici fino alle nove; faceva un giro nel suo pollaio, tra i polli (addirittura duecento), i tacchini, le oche, le anatre, i pavoni, e i bachi da seta e le api; curava il pergolato: «Per lui — diceva — io stravedo, come un giovane autore per la sua prima commedia, quando sta per essere ben accolta dal pubblico». Dalle undici alle dodici leggeva («non oso indugiare a questo piacere più di un’ora»); alle dodici pranzava; dormiva fino alle tre: «A questo punto mando a chiamare qualcuno dei miei vecchi preti, e gioco a piquet e a whist»; finché la sera cavalcava nei boschi sotto la luna.
Le dame vicine la invitavano a Parma, che distava quaranta miglia, per assistere all’ingresso di don Filippo di Spagna nella sua città. Ma lei rifiutava. «La mia curiosità — disse — non è solo diminuita, ma quasi estinta, e i contadini mi sono graditi quanto un principe». E ricusò di andare alla Fiera di Bergamo: o a qualsiasi caccia o festa lontana o vicina. Accettò soltanto la richiesta del parroco di far recitare l’opera in un salone del suo castello: non capiva la musica, e probabilmente nemmeno l’italiano del libretto; ma amava il ritmo delle scene, la bellezza delle voci, la bravura degli attori. «Gli italiani erano tutti contadini, ma hanno un talento per la commedia così naturale, che hanno recitato benissimo, come fossero stati allevati per questo... Sebbene fosse soltanto il sarto del villaggio, l’Arlecchino era superiore a tutti i miei Arlecchini di Londra».
Lady Montagu faceva volentieri dei piccoli viaggi, che la conducevano nelle regioni vicine. Amava moltissimo il fiume Oglio, ampio come il Tamigi a Richmond: il cavallo la portava sulla riva, e lei contemplava le imbarcazioni che ogni giorno salivano e risalivano il fiume, dirette a Mantova, a Guastalla e a Pontecorvo. Il lago Iseo la incantava: era diverso da qualunque altro lago, perché aveva il colore del mare, e nel profondo una sfumatura di verde. A Lovere, andava spesso a fare le acque, a cui i medici attribuivano virtù sovrannaturali. Poi si volgeva verso il lago di Garda; e sosteneva che «il palazzo vicino a Salò era davvero il più bel posto che abbia mai visto. Il re di Francia non ha niente di così bello: nemmeno Versailles».
Criticava l’abitudine degli inglesi di «viaggiare in branco»: parlando e chiacchierando soltanto tra loro, ed evitando ogni conversazione con gli italiani. Amava il clima: «Il calore vivificante del sole prolunga la giovinezza fino alla tomba». E trovava che gli italiani erano per natura «molto riservati»: ciò che è verissimo, sebbene nessuno lo dica. Machiavelli e Guicciardini pensavano che parlare di sé stessi non fosse né elegante né discreto. L’anima è un segreto; e se il cuore trabocca d’ansia e di dolore, dobbiamo nasconderlo con l’eleganza ritmica delle parole e la perfezione della linea. A Lady Montagu la riservatezza dei suoi amici italiani pesava: avrebbe voluto tenere, anche con loro, una di quelle interminabili conversazioni a Londra, che ora, a Brescia, teneva per lettera con Lady Bute, la sua «cara bambina».
«La tua felicità è il mio primo desiderio, e lo scopo di ogni mia azione», scriveva alla figlia. «Tu sei stata la passione della mia vita». Ma il suo tono era sempre quieto e misurato: non alzava mai la voce; risparmiava i consigli e gli avvertimenti. Niente di più lontano dall’abissale passione amorosa e dall’ardore dostoevskiano — diceva Proust — con cui Madame de Sévigné si rivolgeva alla figlia. A volte Lady Montagu fantasticava. Lì, nella campagna, tra i polli e i bachi da seta; cercava di immaginare la vita aristocratica di Londra, le brillanti conversazioni, i fidanzamenti, i matrimoni, le avventure. «Con l’aiuto di qualche miserabile giornale, più le mie riflessioni — diceva —, mi costruisco un telescopio sfocato come quelli che servono agli astronomi per esplorare la luna. Posso discernere macchie e irregolarità, ma le vostre storie di politica, galanteria e letteratura, tutto terra incognita».
Non aveva nessun rimpianto per la vita brillante, sontuosa e avventurosa, che aveva condotto con tanto amore. Non si lamentava mai. Non conservava traccia della eccitazione giovanile. «C’è una pace dopo l’abbandono degli obbiettivi — diceva —, un po’ simile al riposo che segue una giornata laboriosa». Anche se spesso proclamava di essere vecchia, intollerabilmente vecchia, le piaceva vivere: senza fini né progetti; così, giorno per giorno, minuto per minuto. Tutto la divertiva: tutto aveva diritto di essere osservato ed amato. Non cedeva mai alla malinconia né alla noia. La cosa essenziale era lo svago. Leggeva, scriveva, cuciva, disegnava, cavalcava, dirigeva la fattoria, andava alle acque, sempre con buonumore e fiducia. Era misurata, tranquilla, parsimoniosa. Non inseguiva il piacere, perché coltivarlo è subito seguito dal dolore, mentre la quiete è accompagnata dal piacere. Che importava che tutto fosse un’illusione? Con occhi incantanti seguiva i suoi progetti: felice proprio quando essi si dissolvevano nell’aria, come i castelli di sabbia dei bambini.
Sebbene fosse semicieca, continuava a leggere: specialmente libri allegri, che addolcivano l’esistenza e restituivano la pace all’anima tormentata: «Se si potessero noleggiare occhi di ricambio come cavalli di posta — diceva scherzando —, ammetterei soltanto dei compagni muti». «Nessun svago è così economico come la lettura, né nessun piacere altrettanto duraturo». La figlia e il genero le inviavano casse di libri dall’Inghilterra: lei amava Fielding, Joseph Andrews e Tom Jones ; e detestava i romanzi interminabili e lacrimosi di Samuel Richardson, Pamela e Clarissa . Su Swift scrisse qualche riga crudele: «Chiunque voglia eliminare la religione dal mondo a forza di ragionamenti e di risate, dovrebbe essere trattato come un nemico pubblico. Quando questo linguaggio ironico viene da un ecclesiastico, che gode ampi benefici da quella stessa Chiesa che apertamente disprezza, la cosa è di un orrore per il quale mi manca il nome».
Nel novembre 1756, Lady Montagu lasciò il tranquillo agio del lago di Iseo per i fasti di Padova e soprattutto di Venezia. A Venezia, dove c’era «un gran mondo di viaggiatori inglesi», riprese a fare conversazione, e andò ai balli di Carnevale: «La magnificenza è stata superiore a qualunque cosa tu abbia mai visto»; «Venezia è il centro del piacere, non così chiassosa e secondo me più raffinata di Parigi».
In realtà, era di cattivo umore: preferiva i suoi polli; e detestava le sfrenatezze e il gioco. Cominciava a pensare alla morte: voleva scrivere alla figlia una lettera consolatoria; il 3 aprile 1761 fece testamento: scrisse due lettere con la testa confusa e le mani tremanti. Dopo molte esitazioni, abbandonò l’Italia, attraversò l’Europa, giunse a Londra, riabbracciò la figlia che non vedeva da ventidue anni, fece qualche visita mondana; e, con la stessa grazia con cui era vissuta morì il 29 agosto 1762.
Pietro Citati