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 2014  agosto 26 Martedì calendario

LIBIA AL COLLASSO, GLI ISLAMICI NOMINANO IL LORO PREMIER

La Libia è con un piede dentro la somalizzazione mentre con l’altro sta già affondando. Che cosa sia diventata la Somalia dopo la caduta di Siad Barre nel ’91 lo sanno tutti, l’emblema dell’anarchia e della destabilizzazione che ha pure inghiottito una fallimentare missione Onu. Ai Paesi arabi nordafricani riuniti ieri al Cairo l’ambasciatore libico Fuad Jibril ha chiesto l’avvio di una missione internazionale sotto l’egida delle Nazioni Unite: «Non siamo in grado di proteggere istituzioni, infrastrutture e campi petroliferi». E tanto meno la popolazione, dovremmo aggiungere, sia libica che straniera, preda di una nuova pirateria mediterranea che usa le coste come un’intoccabile Tortuga.
L’ambasciatore è come se avesse detto di rimediare a quanto è stato fatto con l’abbattimento di Gheddafi. Un paradosso ma non troppo se pensiamo all’Iraq e alla Siria. Perché di questo si tratta: la Libia è stata proiettata dagli eventi nello sgretolamento generale del Medio Oriente. Gli Stati arabi presenti al Cairo hanno lanciato il solito e usurato appello al dialogo escludendo un intervento: ma sono parole che mascherano una realtà ben diversa.
Tripoli non ha né un governo né un Parlamento, in esilio a Tobruk, 1.200 chilometri a Est della capitale, e ora neppure un aeroporto, distrutto dalle brigate islamiche per sfregio agli avversari delle milizie lealiste di Zintan che lo occupavano. Mentre gli islamisti hanno riesumato il Congresso generale nazionale (Gnc), che doveva essere sepolto dalle elezioni del giugno scorso in cui i partiti musulmani erano stati sconfitti, e ha nominato un nuovo premier filoislamista, Omar al Hasi.
Siamo di fronte a una sorta di secessione. Il fronte anti-islamico (Mahmoud Jibril, le brigate di Zintan, il generale Haftar) intende adesso dimostrare che è in corso un golpe che comprende la delegittimazione del Parlamento in esilio a Tobruk il quale a sua volta ha nominato un nuovo capo di stato maggiore per riconquistare Tripoli da mille chilometri: non si sa con quale esercito. I laici vorrebbero quindi spingere i Paesi amici a schierarsi contro le brigate di Misurata alleate degli islamisti.
Un’altra scelta difficile per l’Occidente perché in questa versione della storia ci sono alcune verità - gli islamici stanno tentando il colpo di mano - ma anche molte ambiguità, alimentate proprio dagli pseudo amici di questa disgraziata Libia, «dove non ci sono angeli ma solo molti diavoli», come afferma lo studioso Karim Mezran.
Tripoli è la capitale di un caos che forse prelude a un altro caos, islamico o di altro segno, magari sostenuto dall’esterno, destinato ad assoggettare nuovamente la popolazione. A tre anni dal linciaggio di Gheddafi, la Libia appare quasi irrimediabilmente divisa tra Est e Ovest, tra Tripolitania e Cireanica, in un complesso intreccio di schieramenti, tra islamici, anti-islamici, lealisti ex gheddafiani, clan e tribù, che non si sa neppure più con chi parlare. Stoico lo sforzo dell’ambasciatore italiano Giuseppe Buccino che si ostina, unico occidentale rimasto, a tenere aperti i canali con le varie fazioni. Gli altri hanno fatto le valigie.
Del resto nemmeno i libici sanno a chi rivolgersi in un Occidente latitante e quindi hanno sollecitato i Paesi della regione. L’Egitto, secondo fonti americane, insieme agli Emirati avrebbe appoggiato con i raid aerei le milizie del generale Khalifa Haftar in Cirenaica e poi bombardato anche gli islamici a Tripoli. Gli egiziani hanno ribadito ieri di avere diritto a intervenire per evitare il contagio dell’anarchia libica.
Ma a queste iniziative contro le fazioni islamiste ne potrebbero seguire altre di segno opposto, trasformando la Libia in un’altra devastante guerra per procura come quella in corso da anni in Siria. Tra infiltrazioni jihadiste e interferenze esterne di ogni tipo, la Libia come la Somalia può aspirare a diventare un’altra cronica zona grigia sulla mappa africana. Se per queste stesse ragioni la Francia è andata in Mali, dovrebbe tornare anche in Libia per rimediare ai guasti delle sue iniziative. Che cosa hanno fatto europei e americani per la Libia? L’hanno lasciata scivolare nel marasma del Medio Oriente. Nel febbraio 2011 i francesi hanno trascinato la Nato, e anche noi, nei raid contro il Colonnello per poi dichiarare di avere vinto la guerra con una sfilata di Sarkozy e Cameron a Bengasi, seguita da quella dell’onnipresente Erdogan, il neopresidente turco, altro brillante membro della Nato che da alcuni anni, insieme al nuovo premier Davutoglu, sta combinando disastri, dalla Siria a Gaza.
Dopo aver sostenuto i Fratelli Musulmani egiziani, spazzati via dal golpe del generale Al Sisi, Erdogan ha preso in casa i combattenti libici con l’idea di convogliarli oltre confine, insieme ad altre migliaia di estremisti, nella battaglia contro Assad. Una jihad i cui effetti stiamo misurando con l’avanzata del Califfato. I mujaheddin libici poi la Turchia ha dovuto rispedirli a Bengasi perché erano diventati ospiti scomodi. È a questi apprendisti stregoni, foraggiati dalle monarchie del Golfo, che hanno dato retta per convenienza e interesse americani ed europei.
Definire avventuriste queste iniziative, volte a dirigere a proprio piacimento le rivolte arabe, è dire poco. Francia e Gran Bretagna hanno provato, con insuccesso evidente, a scalzare l’Italia dal suo ruolo economico primario nell’ex colonia libica, come se fosse questo l’obiettivo. Se ora la produzione di petrolio è risalita da 150mila a 600mila barili non lo si deve certo a loro. Mentre la Ue si è dimostrata un ectoplasma che ripete frasi fatte e non fa nulla per frenare l’ondata dei profughi.
L’Europa si rifiuta di curare persino i sintomi del male oltre che le sue radici. Altri potrebbero farlo al suo posto ma dopo non lamentiamoci delle conseguenze.
Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 26/8/2014