Mario Baudino, La Stampa 26/8/2014, 26 agosto 2014
ASPETTANDO IL MAQUIS LA RESISTENZA DI BECKETT
«Non si può stare con le braccia incrociate», sottinteso a guardare gli eventi. E così lo scrittore nichilista di Aspettando Godot, il più lucido e disperato contemplatore del vuoto, abbracciò a Parigi, nella Francia occupata dai tedeschi, la lotta clandestina, unendosi a una cellula in contatto coi servizi segreti inglesi e affrontando molti rischi; sfuggì per un soffio all’arresto, perse i compagni più cari, venne insignito a fine guerra di una onorificenza del Trinity College, a Dublino, e a Parigi della Croix de Guerre e della Médaille de la Reconnaissance Française.
Erano giorni gloriosi, anche se con le difficoltà piuttosto terra terra di ogni lotta clandestina. C’era, per esempio, il problema del denaro. Il gruppo di Beckett ne scarseggiava, al punto che per le comunicazioni con Londra doveva ricorrere a cellule belghe e polacche, dotate di radio. Di questa avventura guerresca non si seppe però mai molto, al di là delle onorificenze, almeno fino alla biografia che anni fa James Knowlson, ora professore emerito all’Università di Reading (Damned to Fame, pubblicata da Bloomsbury), dedicò allo scrittore. Lo studioso ne ha parlato nei giorni scorsi all’«Happy Days International Beckett Festival», che si è tenuto come avviene da tre anni a Enniskillen, Irlanda del Nord, cittadina nota per il tempo inclemente e per una certa qual disorganizzazione, forse un po’ tragicomica, dunque beckettiana.
Lo scrittore, in vita, tendeva a non fare menzione del suo passato da combattente, imitato dai pochi amici che ne erano informati. Knowlson ha dovuto scavare in uno strano silenzio; e ora ha compiuto ulteriori, spettacolari progressi grazie alla desecretazione di alcuni archivi e alla collaborazione di ex agenti segreti. Il risultato è un quadro piuttosto impressionante. Quello di una guerra vera, una «sporca guerra», e una guerra di spie. «Niente da fare» dice Estragone, stremato, nell’incipit di Aspettando Godot. «Comincio a crederlo anch’io» gli replica il compagno Vladimiro. Quel «Nothing to be done» è diventato una cifra dell’epoca (il testo è del ’48) e anche un nodo cruciale della cultura moderna. Ma l’autore, sette anni prima, si era dato da fare eccome, una volta capito di che pasta fossero i nazisti e vista la sorte degli amici ebrei.
Cittadino irlandese, e dunque di un Paese neutrale, aveva qualche possibilità in più di movimento. Si unì a una cellula che faceva capo al Soe britannico (il servizio segreto specializzato in operazioni in territorio nemico) e aveva come nome in codice «Gloria Smh», guidata dal chimico Jacques Legrand e da Gloria figlia di Francis Picabia, il grande dadaista. Il suo compito era soprattutto tradurre documenti, ma non si trattava certo di un lavoro d’ufficio. Incombeva il tradimento, i britannici sospettavano di chiunque, persino di Gloria e di sua madre, che vennero a lungo interrogate quando ripararono a Londra; l’ambiente parigino era inquinato da delatori, i più importanti dei quali sono poi stati individuati, ma che all’epoca pericolosissimi.
Nel ’42 Samuel e la futura moglie Suzanne (conosciuta giocando a tennis, sport che lo scrittore amava alla follia, e poi incontrata ancora nel ’38 in una specie di festino ospedaliero che gli aveva organizzato James Joyce, quando fu ricoverato per una aggressione di strada) sfuggirono a una retata della Gestapo in modo rocambolesco. Il gruppo, una quarantina di persone, era stato denunciato da un famoso doppiogiochista; i coniugi Beckett vennero avvertiti appena in tempo, o forse per un puro caso non si trovavano dove i nazisti pensavano di scovarli.
Molti tuttavia furono deportati, e fra loro anche l’amico ed assistente francese del breve periodo in cui insegnò al Trinity College, oltre che compagno di partite a tennis, Alfred Péron. Gli toccò un destino particolarmente tragico e beffardo: rinchiuso a Mauthausen resistette fin quasi alla fine della guerra, ma perì nella marcia di trasferimento – le terribili «marce della morte» – cui i tedeschi costrinsero i sopravvissuti all’avvicinarsi delle truppe russe. I documenti desecretati dicono che Samuel e Suzanne dovettero invece la salvezza a una catena di amici estranei alla cellula, tra cui ad esempio Natalie Serraute, che li nascose in casa sua. Il rigido sistema di compartimentazione vigente nell’unità clandestina, infatti, faceva sì che buona parte dei membri non si conoscessero tra di loro. Una volta in fuga, si rischiava così di essere senza punti di riferimento.
I Beckett riuscirono a raggiungere il Midi, per rifugiarsi in un villaggio del dipartimento della Vaucluse: ma anche qui collaborarono con i partigiani del Maquis, nascondendo armi nella loro cascina e cercando intanto di sopravvivere a una quasi totale mancanza di denaro, adattandosi a ogni tipo di mestiere. In vecchiaia lo scrittore – premio Nobel nel 1969 – avrebbe scherzato su quei tempi definendo l’attività clandestina «roba da boy scout»; ma fu una stagione di fuoco, anche se – o forse proprio perché – continuava a essere soprattutto impegnato dalla letteratura. Il risultato fu il suo romanzo più labirintico, pubblicato poi a Parigi nel ’53 da Maurice Girodias, geniale provocatore e forse pornografo, per la sua Olympia Press: Watt. La storia, molto contorta e certamente metaforica, di un perplesso, solitario domestico.
Mario Baudino, La Stampa 26/8/2014