Gigi Garanzini, La Stampa 26/8/2014, 26 agosto 2014
OLANDA, I FIGLI DEI FIORI RIVOLUZIONANO IL MODO DI PENSARE IL CALCIO
Anno di rivoluzioni, il ’74. Quella dei garofani che trionfò a metà aprile a Lisbona abbattendo la lunga dittatura di Salazar, quella di fine luglio in Grecia che pose fine alla stagione dei colonnelli, quella incruenta e sensazionale che sotto il nome di Watergate costò a Nixon la Casa Bianca.
Ma anche, nel suo piccolo, quella cui l’Olanda del pallone diede il via il 15 giugno nello stadio di Hannover contro l’Uruguay e che solo in apparenza si concluse ventidue giorni più tardi a Monaco di Baviera con la resa alla Germania padrona di casa. In realtà, nel giro di tre settimane quella fantastica nazionale pensata e diretta da Rinus Michels cambiò per sempre il modo di giocare a calcio. Al punto che, narrando la storia del football dal punto di vista dell’organizzazione e dell’interpretazione del gioco, il ’74 potrebbe tranquillamente essere indicato come anno zero. E il prima e il dopo siglati da un a.C e da un d.C dove la maiuscola sta a indicare, per combinazione non per blasfemìa, il profeta di un movimento che era un po’ figlio dei fiori e un po’ arancia meccanica. Insomma Cruyff.
Qualcosa per la verità si era visto negli anni immediatamente precedenti in ambito di club. Prima il Feyenord e poi l’Ajax avevano vinto le ultime quattro coppe dei Campioni. E già nel ’69, quando il Milan di Rivera e Prati aveva schiantato in finale un’Ajax ancora troppo tenero, l’allora osservatore Cesare Maldini aveva fatto una gran fatica a raccontare a Rocco come si muovevano in campo quei satanassi. Tanto che alla fine, davanti a un taccuino pieno zeppo di frecce e freccette per riassumerne i movimenti, il Paròn aveva tagliato corto con una battuta delle sue: «Ciò, Cesare, per mi ti te guardi tropi film de indiani». Ma fu quel 15 giugno che il mondo intero all’improvviso scoprì il calcio dell’assalto alle diligenze.
I terzini Suurbier e Krol che diventavano ali, le ali Rep e Rensenbrink che, volendo, diventavano terzini, Neeskens che si muoveva da mediano ma poi diventava il vero centravanti. Due centrali difensivi tecnicamente appena normali ma perfetti nel darsi copertura a vicenda, due cursori di centrocampo instancabili e sempre perfettamente sincronizzati sui movimenti di Cruyff e, nei momenti più felici, persino sulle sue intenzioni di gioco che, trattandosi di fuoriclasse, non erano davvero semplici da indovinare. Alle spalle di tutti, con la maglia numero otto che oggi non fa più colpo ma allora era da chiamare il 113, Jongbloed, il tabaccaio. Non perché fumasse, per quello bastava e avanzava Cruyff con il suo pacchetto al giorno. Ma perché faceva per davvero il tabaccaio, e il portiere quasi a tempo perso in una squadretta di Amsterdam di seconda fila: però ci sapeva fare con i piedi e questo solo contava per Rinus Michels, che giocando a zona e con la difesa alta, se non altissima, più che di un portiere aveva bisogno di un libero.
Quell’Olanda applicò per prima il pressing, sistematico, in tutte le zone del campo. I raddoppi di marcatura, il fuorigioco a metà campo. Cancellò la specializzazione dei ruoli, facendo di ciascun interprete un giocatore polivalente, universale, capace tanto di attaccare quanto di difendere, tanto di temporeggiare quanto di affondare. In un’epoca in cui l’uomo chiave era considerato il regista, Michels affidò la regia a qualunque giocatore fosse in quel momento in possesso del pallone: anche perché la straordinaria preparazione fisica della squadra garantiva un tale tourbillon da consentire a chi avesse tra i piedi il pallone, anche il più scarso, una miriade di soluzioni. Poi è vero anche che di scarsi in quell’Olanda ce n’erano pochini. E quei pochi, umili abbastanza da capire che il pallone, anziché perderlo con una giocata velleitaria, era meglio surgelarlo in mezzo al campo: dove con uno scatto all’indietro degno dei suoi celeberrimi affondi sarebbe arrivato Cruyff a prenderlo in consegna. Come al primo minuto della finale di Monaco quando, dopo 16 passaggi e tocchi preparatori a centrocampo, il fenomeno arrivò, piazzò lo scatto verticale e si prese il rigore che a tutti parve decisivo. A tutti meno che ai tedeschi.
Torniamo ad Hannover, ai due gol di Rep agli uruguagi, alla dozzina di occasioni fallite perché cicale lo erano per davvero, e fu proprio Brera, che così li ribattezzò, il primo ad accorgersene. Allo stupore che quel calcio così prepotentemente diverso suscitò ovunque meno che da noi, perché proprio quello stesso giorno eravamo alle prese col debutto azzurro contro Haiti, con il gol di Sannon a Zoff poi rimediato a fatica, con il vaffa planetario di Chinaglia a Valcareggi, pace alle anime loro. E alla marcia trionfale che ne seguì, il Brasile battuto, l’Argentina disintegrata, 14 gol in sei partite e una sola autorete al passivo. Scandita da una non meno rivoluzionaria gestione del tempo libero, con il ritiro aperto a mogli e fidanzate, non necessariamente di lunga data, bagni di sole, cocktail a bordo piscina, fumo libero e fotografi quasi altrettanto liberi di immortalare.
Tre mesi prima, a Los Angeles, La stangata aveva fatto il pieno di Oscar. L’atmosfera del Mondiale era quella, i primi piani di Krol, di Neeskens, di Rep avevano qualcosa delle facce da schiaffi di Paul Newman e Robert Redford. Insomma era tutto pronto per rovinare la festa ai tedeschi che per la prima volta l’avevano organizzata in casa loro. Figurarsi dopo che al primo minuto Neeskens trasformò quel rigore senza che i tedeschi dopo il calcio d’inizio olandese avessero ancora toccato il pallone. Macché. Troppo presto convinta di avercela fatta, l’arancia meccanica prese a specchiarsi in giro per il campo. E la Germania bissò l’impresa di vent’anni prima, quando a Berna aveva rimontato in finale la grande Ungheria, unica nazionale del dopoguerra capace di una rivoluzione paragonabile a quella olandese. Oggi sappiamo per esperienze anche recenti che il calcio è quello sport in cui alla fine vincono i tedeschi. Ma fu l’indimenticabile lezione di quell’Olanda a cambiare per sempre il gioco più bello del mondo.
Gigi Garanzini, La Stampa 26/8/2014