Marco Pastonesi, La Gazzetta dello Sport 26/8/2014, 26 agosto 2014
CIAO ALFREDO
Era l’essere, non l’avere. Era l’andare, non lo stare. Era il regalare, non il prendere. Era il portare, non il ricevere. Era l’accogliere, non l’entrare. Alfredo Martini era una voce del verbo dare. Era il verbo. Era. Ed era, di tutti i verbi, il pedalare. Che non è solo lo spingere e, allo stesso tempo, il tirare – la pedalata rotonda, dunque perfetta – i pedali. Ma era soprattutto lo spingere e il tirare il capitano, e poi i compagni, e poi il gruppo, e poi la squadra, e poi la Squadra, cioè quella degli azzurri, dell’Italia, e poi la gente, il popolo, il mondo del ciclismo. Era anche lo spingere le situazioni e poi tirare le conseguenze, o il fiato, o un sospiro. Ed è stato lo spingere fino all’estremo e poi tirare le conclusioni.
Martini era, non Martini fu. Un verbo imperfetto - era - solo nel tempo, ma perfetto nella sua essenza e nella sua essenzialità, nella sua eterna generosità. Era sereno, anche con il brutto e il cattivo, era mite, anche con il burrascoso e il tempestoso, era dolce, mai sdolcinato. Era primavera anche d’estate e d’autunno, e il suo inverno è stato fugace. Era un uomo a due ruote che si faceva in quattro e remava per otto, un otto con: con il cuore. Aveva un cuore grande così. Martini era il ciclismo, e se non da quello pionieristico, lo era dall’eroico fino allo scientifico, dal romantico fino al tecnologico, dal nazionalpopolare fino allo sportspettacolare. Era il ciclismo nel suo essere fra gli uomini lungo la strada, quell’immedesimarsi nella natura fino al riappartenervi completamente: il ciclismo come aria, acqua, terra e fuoco. Il fuoco che sta dentro i campioni, così frettolosi nell’arrivare al traguardo, e dentro i gregari, così pigri nell’abbandonare la corsa.
Natura Martini era già morto due volte, e lui lo sapeva. La prima volta è morto con Franco Ballerini. Fra i due era nato un rapporto che tutti vedevano o interpretavano come quello fra padre e figlio, invece Martini precisava che lui due figlie le aveva e che Ballerini due genitori pure. Invece all’inizio era stato Franco a nutrirsi di Alfredo, ma poi è stato Alfredo a ringiovanirsi con Franco. Perché gli antichi valori avevano messo radici ed erano rifioriti: la stessa disponibilità, lo stesso verbo essere, esserci. E quella morte incidentale di Franco era contro natura: ingiusta, intollerabile, insopportabile. Né Alfredo né Franco erano due santi, e neanche avrebbero aspirato a diventarlo. Ma avevano qualche santità: se non altro, santa pazienza, e, spesso, anche santa ragione. La seconda volta Martini è morto quando, alla soglia dei 93 anni, le gambe hanno cominciato a scricchiolare, e il verbo andare è stato inquinato e poi quasi sostituito dal verbo stare, e di conseguenza anche il verbo portare è stato rimpiazzato dal verbo ricevere, e il verbo pedalare, nel suo spingere e tirare, si è fatto più faticoso, più lento, fin quasi a spegnersi. Lo stradista non è un pistard, lo stradista non può permettersi il “surplace”, e Alfredo era stradista, stradaiolo, stradale, magari non uno Stradivarius del ciclismo, ma uno stradario di regole e di storie. Infine, era diventato un passerotto, un vecchio rugoso ferito passerotto, che spiluzzicava, perché gli bastava poco o niente, ma che continuava a donare e dispensare. Parole di racconti, sguardi di memorie, briciole di tesori, coriandoli di amori. Richiamando forze da chissà quale rifornimento, distillava la sua vocazione di corridore e condivideva la sua ispirazione di poeta, o forse di profeta.
Il ciclismo non muore con Martini, anche se verrebbe la tentazione di ammettere che invece sì, il ciclismo muore, o almeno muore quel ciclismo, non quello antico, ma quello sociale e comune, che per lui erano stati anche socialista e comunista, e muore quel ciclismo del pane e salame ma anche di Neruda e Garcia Lorca, del bicchiere di vino ma anche dei calici di poesia. Invece il ciclismo non muore, perché non è morto neanche dopo i diabolici stratagemmi di Gerbi, le terrestri astuzie di Girardengo il primo Campionissimo, la divina eleganza di Binda il Trombettiere, i silenziosi voli di Coppi l’Airone, la mineraria forza di Bartali, l’indistruttibile volontà di Magni. Basta una ruota che gira, e la vita ricomincia a girare. E’ qui il bello della bicicletta, fosse anche pesante come un cancello o scheletrica come uno sgorbio.
Felicità Martini era felice, ed era felice così. Questa non voleva che si raccontasse, ma se non oggi, quando. Un giorno gli telefona il suo Fiorenzo, si sentivano anche più volte al giorno, e Fiorenzo ammette che alla vita non può chiedere di più né di meglio: «Mi affaccio al balcone e vedo il Monte Rosa. Nel parco, le mie figlie giocano a tennis. E, in piscina, i miei nipoti schiamazzano». Appoggiata la cornetta del telefono, Martini pensa: «Mi affaccio alla finestra e vedo il Monte Morello. Il campo da tennis no, però c’è l’altalena. La piscina neanche, però c’è il pozzo». E conclude che anche lui è felice. Nella circostanza, trascura di specificare che non ha un parco, ma un giardinettino. A ripensarci: la sua vita era tutta il vezzeggiativo di un diminutivo. Il grande lo trasformava in piccolo purché bello, affettuoso, speciale. O forse il piccolo lo trasformava in grande perché bello, affettuoso, speciale. E si stupiva ancora di come il mondo si fosse rovesciato, tanto che oggi le cose più naturali – volere bene, fare bene, comportarsi bene – appaiono magicamente o miracolosamente straordinarie. Però qualcosa di magico e miracoloso lo faceva. Ai tempi in cui era direttore sportivo, Martini guidava l’ammiraglia (che poi era la sua macchina) e Franco Vita sedeva (ma davanti, non dietro) come meccanico. Finché un giorno Martini disse che, siccome la strada era diritta e lui un po’ stanco, avrebbe fatto guidare Vita. E si scambiarono il posto senza fermarsi e senza scendere, solo staccando per un attimo i piedi dai pedali. Vita sarebbe diventato l’autista (e molto altro, e molto di più) di Martini, fino a farsi affiancare da un altro autista tuttofare, Marco Mordini.
Se il ciclismo è riuscito a creare un Martini, è perché, proprio come spiegava lui, «il ciclismo non è un gioco o un esercizio, ma infinitamente di più»: educazione e formazione, asilo e università, passione e pietà e perfino perdono. In una sola parola: valori. Ed è per questi valori che ti abbiamo amato, Alfredo, e tu non sai quanto.