Maurizio Crosetti, la Repubblica 26/8/2014, 26 agosto 2014
ADDIO CARO ALFREDO. IL CICLISMO IN LUTTO PIANGE IL CT MAESTRO
La casa fiorentina di Alfredo non era solo una casa, era l’inizio e la fine di un racconto tramandato da lui stesso, era una cattedrale di memorie ma non di marmo, semmai di mattoni e calce. Ci si andava come da bambini ci si mette a letto, aspettando che mamma o papà ci leggano una storia. E lui la ripeteva sempre, con garbo antico e quella parlata toscana precisa, accurata, a suo modo un classico.
Raccontava, Alfredo Martini, di quand’era bibliotecario a Sesto Fiorentino, di quando fece amicizia con un ragazzo che lo portava ad allenarsi in bici insieme a lui, e si facevano anche trecento chilometri al giorno, e quando scendevano di sella non era neanche più capace di rispondere a domande semplici, tipo “come ti chiami?”, e invece quell’altro sembrava ancora fresco come una rosa e magari di chilometri se ne sarebbe fatti altri trecento. Si chiamava Gino Bartali, quell’altro.
Si andava a casa di Alfredo, si bussava, a volte si telefonava prima perché lui ormai era vecchissimo, 93 anni, eppure mai opaco, mai arreso alla ruota del tempo che è come quella della bicicletta, e gira. Alfredo, sempre impeccabile nelle sue giacche, sempre con la camicia perfettamente stirata, ti dava la sua mano piccola, un po’ tremula, poi ti faceva accomodare in salotto. E ti raccontava di quando aiutò Fausto a vincere due Tour de France, nel ’49 e nel ’52 (Alfredo aveva una memoria affilata come un rasoio e sapeva squadernare non solo gli anni ma pure i giorni, i minuti, e il tempo che faceva, se pioveva o c’era il sole, o quel vento che accarezza i ciclisti in primavera). Poi, certo, ti raccontava di avere corso in bici per ottant’anni, compresi quelli trascorsi sull’ammiraglia della nazionale: il più grande di tutti e di sempre, e non solo per l’incredibile numero di maglie iridate vinte (sei) con Moser, Saronni, Argentin, Fondriest e due volte Bugno, di secondi posti (sette) e di terzi posti (sette). Il più grande per come sapeva amalgamare persone diversissime tra loro, corridori all’opposto, l’alfa e l’omega del genere umano, tipo Saronni e Moser che vinsero entrambi, alla fine. Cosa volete che fosse, per lui che aveva visto Coppi e Bartali mordersi e sfinirsi nel fango e nel sole? Ragazzacci, bambini al confronto, Francesco e Beppe.
Ti offriva un caffè, Alfredo, e con la sua voce gentile ti faceva capire che il ciclismo non è uno sport, non solo, ma un genere narrativo, un romanzo epico con gli eroi e i poveracci, più eroici ancora quest’ultimi per tutta la fatica che devono ingoiare. Come toccò a lui, corridore professionista dal ’41 al ’57 sulle strade bianche e nei sentieri polverosi della fame, nel dopoguerra, quando un paese intero seppe rinascere oltre il dolore grazie, anche, a ragazzi come Gino, come Fausto, o
come Valentino Mazzola tra i muri del Filadelfia.
Alfredo ti diceva quanto aveva amato Marco Pantani e sofferto per lui. Per lui e per il suo povero ciclismo offeso, tradito eppure mai morto, perché non muoiono Ettore e Achille, Fausto e Gino, Beppe e Cecco detto “lo sceriffo”, Ganna e Gerbi, Bottecchia e Fiorenzo Magni il leone delle Fiandre. Eccoli, Alfredo, sono tutti dentro il tuo libro. Sono tutti nella tua voce che racconta la storia per noi che ci addormentiamo, ora che scende la sera.