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 2014  agosto 25 Lunedì calendario

GIUGIARO E I SOGNI DIVENNERO AUTOMOBILI

[Intervista a Giorgetto Giugiaro] –
Per caso e determinazione. Estro e pratica. In poppa gli anni che seguivano la guerra e aprivano la strada a quello che i giornali battezzarono il boom economico che fu, prima di ogni cosa, un cambiare i costumi. E in questo Giorgetto Giugiaro, classe di ferro 1938, fu uno dei grandi protagonisti. Defilato, perché non faceva allora - e non fa oggi - l’attore, il cantante, il calciatore. Non appare in televisione, non rilascia interviste tutti i giorni. È un piemontese solido, dallo zigomo forte che di mestiere disegna le auto. E quindi colora i tempi. Attraversare con lui quello che sono stati gli anni Sessanta è tanto azzardato quanto realistico. Entrò in Fiat coi pantaloni corti, a 17 anni, altri tempi e altri amministratori delegati. Ne uscì quattro anni dopo per andare a lavorare nella carrozzeria Bertone. E da lì a breve divenne semplicemente Giugiaro, l’uomo che ha dato un tocco alla bellezza italiana, l’ha portata nel mondo: ha disegnato la Giulietta Gt dell’Alfa Romeo, ma anche la Golf, la Passat, la Panda, la Punto, la Maserati 3200 Gt, la Seat Ibiza, la Lamborghini Gallardo, ma solo per citarne alcune. L’elenco è sterminato. Oltre a centinaia di prototipi che venivano cuciti come un abito su misura ai ricchi. E’ Giugiaro, insomma. Il ragazzino che con molta determinazione e la voglia di farcela diventa industriale. Eppure quando entrò alla Fiat lo guardavano storto: non era né un ingegnere né un operaio. Per brevità chiamato artista, come direbbe De Gregori. Un artista che avrebbe applicato la bellezza estetica alla potenza del motore. Ha disegnato di tutto: tante auto, ma anche treni, frigoriferi, palloni da basket, bottiglie d’acqua, fotocamere e persino un tipo di pasta. Ha disegnato quello che eravamo e siamo oggi.
Classe di ferro 1938: le piace la definizione?
Assolutamente sì. Ma erano anni molto particolari, sapevamo da cosa uscivamo e ignoravamo o avevamo un vago intuito su dove saremmo andati.
Perché un artista, figlio e nipote di artisti, destinato a vivere da Maudit, senza una lira e con genio e talento, finisce invece alla Fiat?
Lo devo a mio padre. Artista, anche lui. Ma che appunto non aveva il becco d’un quattrino. Lui voleva che alla vena artistica ne affiancassi una tecnica. Così la mattina andavo al liceo e studiavo arte e la sera in un istituto tecnico. Mi diceva che era necessario saper costruire una sedia e un tavolino, anche se poi avessi dipinto quadri a olio. Fu geniale.
Ma lei non sognava la fabbrica, almeno dagli studi non sembra.
Assolutamente no. Io volevo andare all’Accademia di belle arti. Avrei voluto fare l’artista e sarei finito, appunto, squattrinato. Invece succede una cosa del tutto per caso.
Cosa?
Che uno dei miei insegnanti era parente dell’ingegner Dante Giacosa, mitologico direttore del settore tecnico della Fiat e responsabile del Centro stile Fiat, quello che inventò la Topolino e la Cinquecento, tanto per intendersi. E finii a lavorare lì. Doveva essere uno stage di tre mesi, rimasi quattro anni.
La sua biografia racconta che lasciò la Fiat per andare a lavorare da Bertone. Non la presero per matto i suoi colleghi?
Quasi tutti, solo uno mi disse che avevo fatto la scelta giusta. E fu così.
Ma cosa le offriva Bertone?
Io andai da Bertone con altre intenzioni. Dovevo comprarmi un paio di sci, lo stipendio non mi bastava. Volevo vendere qualche disegno. Lui vide i disegni il venerdì, il lunedì mi propose il contratto. Anche perché nel weekend propose all’Alfa Romeo i disegni che gli detti e loro dissero sì. Nacque così l’Alfa 2600 Sprint. Io gli spiegai che volevo un paio di sci, non volevo un lavoro. Non ci furono storie.
E cosa accadde?
Era il 1959. Mi aumentò lo stipendio dalle 80.000 lire che guadagnavo alla Fiat a 120 mila. Ma non fu quello determinante. Erano tanti soldi, ma decisivo fu il fatto che Bertone mi promise che non mi avrebbe fatto fare il servizio militare. “Ci penso io, conosco tutti”. Mi assunse, e dopo qualche mese arrivò la cartolina. Glielo dissi, lui non mi ascoltò neanche: “Sì, ma lo farai qui vicino, così potrai continuare a lavorare”. Intanto avevo la cartolina, Car a Bra. Ma Bertone aveva organizzato tutto: io continuavo a fare i disegni, lui il venerdì sera veniva alla caserma e li ritirava.
Era praticamente ridotto in schiavitù?
Glielo feci notare, neanche mi ascoltò. Lavoravo come un matto. Avevo paura che mi sostituisse. Dopo il Car mi trasferiscono a Torino, in fureria. Ma arrivò un tenente al quale non piaceva che avessi tutti questi permessi, facessi la mia vita. Così mi mandò a fare tre mesi di addestramento . Era il 1960. Ma fu una fortuna anche quella, un’estate particolare, nacque il disegno della Giulia Gt.
Possiamo dire che fu l’estate della sua vita?
Fu allo stesso momento e decisiva per la mia carriera. Dunque fu l’estate della mia vita. Nacque la Giulia Gt e fu un grande successo. Alla fine fu L’Alfa Romeo a produrla, ma Bertone aveva in mente di assemblarla lui. Non fu così. Ma la facemmo noi. E pensare che è nata durante il servizio militare.
Un po’ di merito lo ebbe la sua preparazione alla Fiat? Erana la Fiat di Valletta?
Sì, erano gli anni di Valletta e quando entrai alla Fiat, oltre ai pantaloni corti, mi portavo una grande mano per disegnare. Ma non sapevo niente di cosa fosse un’industria. Quando gli ingegneri al colloquio mi chiesero di motori andai nel panico. Ma quella fu la mia prima grande scuola, la laurea in ingegneria che non avevo mai preso.
La seconda?
La seconda da Bertone. Io, ma poi lo scoprii dopo, venni assunto perché, oltre alle doti e a quella 2600 disegnata per gli sci, dovevo sopperire alle assenze prolungate di un mio collega, Scaglione. Era un genio, un grandissimo progettista. Ma faceva quello che voleva lui, veniva a lavorare due giorni, poi spariva per una settimana. E Bertone aveva difficoltà nelle consegne. Così scelse un ragazzo di scuola Fiat anche per quello. Gli avrei garantito la puntualità e la precisione insieme all’estro. Tanto è che non smisi mai di lavorare, neanche mentre facevo il servizio militare. Ma Scaglione mi insegnò molto.
E quel tenente che fine fece?
L’anno dopo mi mandò un altro mese in addestramento, l’ultimo da militare. Ma ormai finivo, non mi interessai più di tanto.
Lei era un raccomandato, non gli andava giù.
Quale raccomandato? Magari. Facevo il militare e il venerdì si presentava Bertone a prendere i disegni. Già che c’erano mi fecero rifare i quadri della mensa, rifeci tutte le vecchie divise. Poi finivo i colori, correvo a prenderli alla carrozzeria.
Però successe che lasciò anche Bertone. Fu il passaggio alla Ghia, giusto?
Con grande dispiacere, mio e del ragionier Bertone.
Un giovane che legge quest’intervista non può capire. Lei aveva una marcia in più, ma anche gli anni erano una evoluzione continua di opportunità.
L’economia girava. C’erano le possibilità di crescere, di avere ottimi maestri. Era un altro mondo rispetto a oggi. Arrivavano investitori anche dall’estero. La Ghia l’acquistò un brasiliano. Fu lui a volermi. E l’offerta non la potevo rifiutare.
Questione di soldi?
Questione che mi ero appena sposato.
Per fondare la sua azienda?
Fu l’ennesimo trasloco. Il più bello. Insieme a Mantovani, il mio socio, fondammo l’Italdesign. Ma siamo ancora alla nascita naturale e voluta dalla fatalità. Lei pensi che quando registrammo il marchio ero in Giappone, tornai per le firme dell’atto e trovai il nome, Sirp. Dissi: ma cos’è questa schifezza di nome. Aggiungiamo almeno Italdesign.
Quanti dipendenti ha oggi?
Circa mille dipendenti. Dal 2010 siamo parte del gruppo Volkswagen e lavoriamo trasversalmente per tutti i brand del Gruppo continuando a offrire i servizi che ci hanno resi celebri nel mondo ovvero, ricerca estetica, sviluppo ingegneristico e costruzione prototipi di pre-serie. Abbiamo lavorato con con tutte le case giapponesi eccetto la Honda, con la Bmw e le altre case europee oltre ad aziende del mercato cinese. E’ nostra l’intera ingegnerizzazione dell’ultima versione della Mini nel modello coupé, cabrio e Clubman. Non lo sanno in molti.
Avete dovuto ridimensionarvi per la crisi?
In alcuni anni siamo scesi a 900 dipendenti, ora siamo tornati a 950. Con un indotto che conta altre seicento persone.
Una storia importante, cavaliere. Bella. Verrebbe voglia di riascoltarla e chiederle altre mille cose. Una però per chiudere: quel paio di sci è riuscito a comprarseli?
Non ricordo.
Dunque?
La Ghia mi offriva il triplo dello stipendio, ma soprattutto mi nominava dirigente. E io ero ancora un ragazzino. Avrei gestito l’ufficio tecnico e quello dello stile. E fu un’esperienza decisiva anche quella, fatta di conoscenze, viaggi, contatti con il Giappone. Un bagaglio culturale che mi porto appresso ancora oggi.
Possiamo dire che lei ha portato la bellezza nel mondo?
Non so se ci sono riuscito, ma sicuramente ci ho provato. E’ un aspetto fondamentale nella nostra vita quello della bellezza.
Ma dove si inizia a disegnare un’auto?
Dai pedali, dalle distanze di millimetri. Poi arriva il resto. Ma le distanze tra un pedale e l’altro, l’altezza dell’abitacolo, la distanza tra i sedili e il volante sono nozioni fondamentali che il Giugiaro ragazzino non aveva.
La sua storia è talmente affascinante che mi sono dimenticato di chiederle quello che fa oggi?
Cosa vuole che faccia? Disegno le auto. Per tutti.
C’è un particolare che molti dimenticano: lei ha disegnato anche la Golf.
Sì. Tutta quella famiglia di auto. Cambiarono la dirigenza alla Volkswagen e quelli che arrivarono e avevo conosciuto anni prima vennero a cercare me. Ma sempre saloni dell’auto, conoscenze casuali, disegni. Alla Ghia, un anno, al saloni di Torino, mi presentai con cinque prototipi. Feci spendere un sacco di soldi a quell’ingegnere. Poi lasciai anche lui.
Emiliano Liuzzi, il Fatto Quotidiano 25/8/2014