Giulia Zaccariello, il Fatto Quotidiano 25/8/2014, 25 agosto 2014
“COSÌ NASCONO QUEI VESTITI CARI COME UNA CASA”
[Chez Gattinoni] –
Se si oltrepassa la linea che divide gli abiti dei comuni mortali da quelli da sogno, facili da ammirare più che da avere, si arriva qui. In via Toscana, a due passi dall’ambasciata americana e da via Veneto, a Roma, naturalmente. Nell’atelier romano di Gattinoni. E già le visioni sono qualcosa che riportano alle fiabe, quelle di una volta, popolate da principesse o aspiranti tali: settecento metri quadrati per quasi 70 anni di storia.
Un passato glorioso, che inizia grazie al genio di Fernanda Gattinoni, stilista in grado di vestire con i suoi intrecci e drappeggi mezza Hollywood. Elizabeth Taylor, Audrey Hepburn, per citare due nomi che volevano e cercavano solo lei. Ma anche Anna Magnani, che della fondatrice della maison era amica oltre che cliente. Oggi la direzione artistica della casa di moda è in mano a Guillermo Mariotto che, oltre a disegnare è anche diventato un volto della televisione grazia a Milly Carlucci, e a ordinare i capi, tutti disegnati su misura, sono le principesse del Qatar e dell’Arabia Saudita, soprattutto. I soldi ormai abitano là, oltre a qualche russo.
Chiedono e trovano il made in Italy, quello vero, fatto di tessuti ricercati e stoffe pregiate, lavorati con una sapienza preziosa e rara quanto i materiali. E da queste parti ci tengono a fare i distinguo.
“Negli ultimi anni si è fatta una gran confusione, perché è stata fatta passare per alta moda un prodotto industriale realizzato in serie”, spiega Stefano Dominella, attuale patron del marchio. “Qui invece si tratta di alto artigianato, di creazioni fatte a mano. È la tradizione dell’alta moda, quella che si perpetua da 100 anni e di cui in Italia, purtroppo, è rimasto poco e niente”. I prezzi, inutile dirlo, sono da capogiro. Per un tailleur la base è di 10 mila euro almeno. E poi si va avanti, all’infinito. Si può arrivare anche a 250 mila euro che, per un comune mortale, vuol dire acquistare un appartamento, con tanto di mutuo ventennale, se va bene.
Ma se il costo è proibitivo, è vero che dietro ogni singolo capo c’è un lavoro di giorni solo per la fase finale. A volte sono necessarie anche tre settimane, e l’impegno di almeno 6 persone. Oltre alla fase di elaborazione del disegno che, invece, dura mesi. “Si parte dallo stilista: disegna l’abito, sceglie i materiali e in alcuni casi li fa realizzare da aziende tessili e ricamatori . Non segue solo due o tre prove, ma è sempre presente nel laboratorio”.
Poi il progetto passa in mano alla modellista première, che nell’atelier ha un ruolo da vera e propria coprotagonista, insieme al fashion designer. I due lavorano sempre fianco a fianco. “Nel prêt-à-porter di lusso si realizza il modellino in carta, che poi viene passato alla macchina che lo ricama. Nell’alta moda, invece, il procedimento è diverso. Qui è fatto tutto all’antica. Con il disegno, la première realizza un abito in teletta da sartoria. Lo taglia, lo imbastisce, e con una matita grossa segna le cuciture. Poi lo prova sul manichino, confrontandosi con lo stilista per capire se volumi e lunghezze sono giuste. E solo una volta che la tela è perfetta, senza la minima sbavatura, e finita, la modellista la smonta e taglia l’abito nel tessuto. Un processo dove non si più sbagliare”.
Un mestiere di altissima precisione, che richiede abilità, preparazione e una gran dose di concentrazione. Difficile chiamarlo semplice artigianato. “Quello della modellista è un genere di professionalità che purtroppo, negli ultimi anni, si è perso a causa dell’industrializzazione della moda. Specialmente in Italia. Noi ad esempio facciamo molta fatica a trovare personale di questo tipo. Eppure è un lavoro creativo, che ti entra nel sangue. Per farlo ci vogliono gusto e proporzione”.
Oggi nel laboratorio di Gattinoni lavorano 12 modelliste, compresi due stagisti. E l’età media è molto alta: quasi 60 anni. “Solo negli ultimi tempi si sta correndo ai ripari, per cercare di recuperare e salvare queste competenze, ma ci vorrà molto. Anche perché nel nostro Paese non si fa niente per promuoverle”. E sebbene l’atelier sembri un luogo sospeso nel tempo, negli ultimi 15 anni qualche innovazione tecnologica è stata introdotta. Si usa la forbice elettronica, ad esempio, che non sfila, ma brucia il tessuto dove passa. Alcune lavorazioni poi vengono fatte a laser, anche nell’alta moda. Così come nello sviluppo del ricamo, il computer e la stampante aiutano moltissimo, ma sono innovazioni entrate in uso negli ultimi anni.
“Il segreto sta nella capacità di conciliare il lavoro artigianale, insostituibile, con il progresso della tecnologia, che migliora la qualità del prodotto e ottimizza i tempi”.
Giulia Zaccariello, il Fatto Quotidiano 25/8/2014