Elisabetta Ambrosi e Graziella Durante, il Fatto Quotidiano 25/8/2014, 25 agosto 2014
LA GRANDE BELLEZZA È SEMPRE DI MODA
C’è una buona notizia nell’Italia incupita dalla crisi economica e puntellata di chiusure aziendali: il primato del made in Italy nell’ambito della moda resiste. E non solo a giudicare dagli abiti sfoggiati sui red carpet in occasione dell’ultima notte degli Oscar - Valentino, Pucci, Cavalli, Miu Miu, Versace, Fendi, Ferretti, Dolce& Gabbana e nuovi talenti italiani come Giambattista Valli che veste Penelope Cruz e Lupita Nyong’o – ma soprattutto a partire dai bilanci dei 13 marchi italiani del lusso quotati in borsa e più influenti: secondo la società di analisi Pambianco Strategie d’impresa, nel 2013 sono cresciuti più di quelli esteri (4,9% contro 3,5% dei 19 colossi esteri della moda) e per il 2014, secondo gli ultimi studi presentati dall’Osservatorio Altagamma, si prevede un +6%, con un fatturato complessivo di 10,503 miliardi.
In testa alle classifiche Luxottica, con ricavi a 3,882 miliardi (+5,8%), Gucci con 1,755 miliardi di fatturato (+1,6%) e Prada con 1,728 miliardi, in crescita dell’11,7%. A seguire Cucinelli che chiude il semestre con 159 milioni e una crescita pari al 16,2% e Ferragamo con +10,5%. E poi Armani, primo brand ad aprire, nel 2005, un sito di e-commerce in Cina, che ha chiuso il 2013 con ricavi a quota 2,18 miliardi di euro. Insomma, anche se forse i fautori della decrescita e i sostenitori di un nuovo stile di vita frugale non saranno entusiasti, il lusso, sostenuto dalle esportazioni e dagli acquisti turistici, non conosce crisi, in Italia e nel mondo: le previsioni per il 2014 danno l’Europa a un +4%, il Giappone a +9%, il Medio Oriente a +8%, l’Asia a +7% e le Americhe a +6%. Lo shopping a cinque stelle segue la crescita dell’upper class globale e non c’è da stupirsi se le vie romane e milanesi del lusso siano frequentate per lo più da eleganti silhouette orientali o diafane figure slave, mentre nelle boutique le commesse parlano ormai solo cinese o russo.
Made in Italy che se ne va via
Certo, l’esodo dei marchi made in Italy continua: pur non essendo una novità degli ultimi anni, la crisi sta attirando moltissimi nuovi investitori stranieri che puntano all’acquisto di marchi senza tempo ma anche di atelier d’alta moda più piccoli ma non meno prestigiosi.
Già negli anni novanta, il forte interesse delle holding straniere per le griffe della moda italiana ha spinto molte aziende a varcare il nostro confine. È il caso di Fiorucci, azienda nata nel 1967, acquistata dalla giapponese Edwin International, leader dell’abbigliamento del Sol Levante e di Mila Schön, l’atelier inaugurato nel 1958 a Milano rilevato dalla Itochu Corporation. Dal 1999 parte invece l’assalto dei grandi gruppi francesi. La Ppr (Pinault-Printemps-Redoute) acquisisce Gucci, fondata nel 1921 e, a seguire, Bottega Veneta, la celebre pelletteria fondata nel 1967, e la sartoria romana Briori.
L’imprenditore Pinault si lascia sfuggire molte altre eccellenze italiane che, per altre vie, finiscono comunque in mani francesi, da Emilio Pucci ad Acqua di Parma. Nel 2001 lo storico rivale del grande colosso del mercato del lusso francese, Lvmh (Louis Vitton Moet Hennessy), guidato da Bernard Arnault, diventa, dopo lunghe e complicate vicende, azionista di maggioranza di casa Fendi. Toccherà aspettare invece il 2011 per concludere un’operazione dal valore di circa 4,3 miliardi di euro, inglobando anche Bulgari, la storica azienda orafa romana di via Dei Condotti. Nel 2013 è il momento del marchio del cachemire Loro Piana. E mentre i coreani rilevano, tra il 2007 e il 2012, marchi di abbigliamento e pelletteria come Coccinelle e Mandarina Duck che passano nel portafoglio della multinazionale E-Land, a muovere passi decisi sullo scacchiere del lusso italiano sono i ricchi maganti degli emirati arabi. Nel 2011, il gruppo Ferré è acquistato dal Paris Group di Dubai, holding che fa capo al magnate Abdulkader Sankari e che controlla oltre 250 boutique tra Emirati arabi, Kuwait e Arabia Saudita. Ma è solo il primo assaggio, se si pensa che a distanza di un anno, anche la maison Valentino, protagonista indiscussa fin dal 1960 del panorama della moda internazionale firmata Italia, dall’Haute Couture al Prêt-à-Porter, veste arabo. Nel 2012 passa nelle mani del gruppo del Quatar Mayhoola for Investments Spc, che ha acquisito le quote del fondo britannico Permira e della famiglia Marzotto. E tuttavia, anche se il made in Italy fa gola a molti e, specie in tempi di crisi, gli appetiti delle holding straniere aumentano, non si tratta di una tornata d’asta che ha come unico effetto quello di dissipare il patrimonio italiano. In molti casi infatti – il più emblematico e recente è senza dubbio quello della maison Valentino – la cessione della proprietà è parte di una più complessiva strategia di potenziamento del brand che conserva la sua irriducibile italianità grazie a nuovi direttori creativi - Maria Grazia Chiuri e Pierpaolo Picioli – che ne ereditano la lunga storia e nel contempo innovano e rilanciano il made in Italy nel mondo.
È il made in Italy che cresce in casa
Ma il made in Italy continua a restare un patrimonio italiano anche perché, nonostante molti marchi icone dell’inconfondibile stile italiano siano transitati, e continuino a transitare, oltre confine - pur mantenendo, talvolta, la direzione creativa delle maison - la filiera degli atelier più invidiati del mondo resta quella degli artigiani italiani, espressione di una cultura della qualità e della non-serialità, che restano i più ricercati dell’alta moda globale e punto di riferimento per i nuovi stilisti italiani.
Non è un caso che Gucci, che sta rafforzando la sua presenza in Brasile, uno dei paesi più attenti al mercato del lusso, organizzi eventi tra San Paolo e Rio, celebrando la storia prestigiosa del marchio ma anche proiettando documentari che mostrano artigiani italiani intenti a piegare sapientemente uno per uno i manici della celebre Bamboo Bag. Al tempo stesso, e del tutto in contro-tendenza rispetto alle nuove geografie dei mercati del lusso dove pure è sbarcata da tempo, marcia la Prada Holding: che decide di investire in Italia annunciando l’apertura nel 2015 di 4 nuove fabbriche che produrranno 700 nuove assunzioni e della prima Accademia tecnica Prada con sede in Toscana per la formazioni di profili tecnici che saranno integrati nella rete produttiva del gruppo.
Un discorso simile vale per la Cina e i voraci appetiti dei suoi ricchi consumatori e degli investitori. Se in passato le aziende italiane sono cadute in tentazione, trasferendo parte della produzione alla manovalanza asiatica a buon mercato, la tendenza oggi appare rovesciata. Una delle più note griffe cinesi di abbigliamento di lusso maschile, la Sheji-Sorgere, sposta la produzione in Italia ma che produce in Italia (nei laboratori della Raffaele Caruso spa, storica azienda italiana diretta da Umberto Angeloni), perché è il made in Italy a fare la differenza e la fusione tra stile cinese e produzione italiana è una tendenza che acquista sempre più consenso. I cinesi, quindi, sono tra i principali clienti del mercato del lusso italiano, tra gli investitori più dinamici nel nostro paese per l’acquisto di marchi (Fung Brands ha acquisito Sonia Rykiel, Robert Clergerie e Delvaux, Shig-Weichai il gruppo Ferretti Yacht e, recentemente, con un’operazione da 35 milioni Mariuccia Mandelli, più nota come Krizia ha venduto il suo marchio alla Shenzhen Marisfrolg Fashion) e i nuovi finanziatori delle fabbriche del tessile italiano, incidendo anche sull’aumento dell’occupazione italiana. Insomma, anche se gli italiani non possono permettersi più di comprare abiti di lusso, e si fermano al massimo a guardare malinconici le vetrine, possono consolarsi pensando che la moda italiana è ancora protagonista e alimenta in modo consistente il nostro Pil (come racconta il nuovo format Le Italie della moda. Mani e menti eccellenti, nove puntate sull’industria della moda italiana prodotte da Sky Arte Hd in collaborazione con Pitti, in onda da settembre). O magari semplicemente ricordando la celebre frase di Coco Chanel: “La moda è fatta per diventare fuori moda”.
Elisabetta Ambrosi e Graziella Durante, il Fatto Quotidiano 25/8/2014