Leonetta Bentivoglio, la Repubblica 25/8/2014, 25 agosto 2014
“LO CONFESSO HO TRADITO MA NEI LIBRI NON MENTO”
[Intervista a David Leavitt] –
Nell’esplorazione dei terreni accidentati sui cui si muovono le nozioni di fedeltà e infedeltà, la voce di un omosessuale può risultare preziosa. «Però mi viene da rispondere alle sue domande con una raffica d’interrogativi», osserva con impertinenza lo scrittore americano David Leavitt. «Si può tracciare un limite tra lo spirito e la lettera di una normativa sulla fedeltà? Tra infedeltà emozionale e fisica? Tra infedeltà seria e triviale?». Questioni decisamente scivolose.
Emerso nell’84 a 23 anni con le short stories di Ballo di famiglia, Leavitt dimostrò subito un talento scintillante. Nel romanzo La lingua perduta delle gru , uscito due anni dopo, narrò il mondo dei giovani progressisti statunitensi collocandoli in vividi quadri d’ambiente, attraversati da coming out che irrompevano come terremoti in famiglie piene di pregiudizi. Da allora la sua sensibilità letteraria si trovò compressa nella definizione di “scrittore gay”, relegandolo in un genere. Parallelamente gli toccò un’altra etichetta, quella di “minimalista”, indicativa di una dimensione fredda e spiccia che non gli si addice: «Potrei accettarla solo se significasse che nelle descrizioni applico una cura estrema ai dettagli della vita quotidiana», afferma giustamente. Quanto alla bandiera di cantore dell’omosessualità, lui preferisce quella di “post-gay”: «Se un tempo rivendicare l’identità sessuale era un’esigenza politica e ideologica, oggi tutto è diventato più elastico».
David Leavitt, insomma, è “semplicemente” un grande scrittore, anzi: uno degli americani “forti” nella generazione dei cinquanta-sessantenni (la stessa di Jonathan Franzen, Michael Cunningham, Louise Erdrich, Elizabeth Strout…), giunta alla ribalta dopo i “vecchi” padroni della scena, cioè Saul Bellow, Norman Mailer, Tom Wolfe e soprattutto Philip Roth. Altro motivo interessante per quest’intervista: il matrimonio, con tutto il suo carico di disillusioni, costituisce il perno dell’ultimo romanzo di Leavitt, The Two Hotel Francforts, che segue i destini di due coppie sposate nella Lisbona anni ’40, e che è stato segnalato dal New York Times come uno tra i titoli migliori del 2013 (da noi arriverà l’anno prossimo per Mondadori, suo editore italiano).
Dunque, Leavitt: crede nella fedeltà?
«Come gay cresciuto in un’epoca nella quale sposarsi non era un’opzione praticabile, non ho mai dato importanza alla fedeltà né alla monogamia».
È per via di quest’attitudine, comune a molti gay, che li si considera più promiscui e infedeli degli etero?
«Direi di sì. Gli uomini gay, storicamente, si sono preoccupati della fedeltà molto meno degli eterosessuali e anche delle lesbiche. Nei suoi giorni gloriosi, il movimento gay si auto-reputava come l’avanguardia della rivoluzione sessuale. Concepivamo la monogamia come un imperativo eterosessuale da cui essere svincolati: un sistema antiquato da trascendere, e non una causa per cui battersi. Ma l’avvento del diritto dei gay a sposarsi sta determinando cambiamenti significativi. Non so se in meglio o in peggio, francamente. Comunque adesso sono tanti i gay inclini a difendere certe regole di correttezza matrimoniale che sono le stesse contro cui lottavano le generazioni precedenti».
Nel frattempo c’è chi sostiene che stiamo avanzando verso una società estranea alla coppia monogamica.
«Conosco un buon numero di persone, per la maggior parte ventenni ed eterosessuali, che si dichiarano “poliamorosi”. È un atteggiamento analogo a quello della coppia aperta in auge negli anni Sessanta, i leggendari “Swinging Sixties”, e anche nei Settanta. Questa pratica ad alto rischio può essere esercitata solo se si è in grado di dominare emozioni quali la gelosia, l’invidia e la paura del rifiuto. In altre parole, credo che il poliamore sia più un manifesto d’intenzioni che un metodo di vita sostenibile a lungo».
Secondo lei esiste una fedeltà o infedeltà “di genere”, legata agli uomini o alle donne, agli eterosessuali o agli omosessuali? «Il pensiero tradizionale vede le femmine geneticamente programmate per la fedeltà in una maniera che non riguarda i maschi. Sono convinto che non sia così. Tutto ciò che si vuol far passare per programmato è l’esito di convenzioni sociali».
Secondo lei le infedeltà vanno confessate?
«L’obiettivo di chi confessa è la provocazione di una risposta da parte del partner. Ci si aspetta che manifesti rabbia, gelosia, indifferenza. O che a sua volta riveli le proprie infedeltà».
Fedeltà in letteratura: in che modo uno scrittore la esprime verso il soggetto, nel momento in cui questo s’alimenta di circostanze e personaggi ritagliati dalla realtà, come nel caso del suo bel romanzo del 2008 Il matematico indiano?
«Se si scrive una storia basata su vicende autentiche, soprattutto quando sono note come quelle dei matematici Ramanujan e Hardy, la cui collaborazione è stata documentata da vari saggi scientifici, si ha l’obbligo di una certa trasparenza. Perciò, alla fine del Matematico indiano , ho voluto inserire una postfazione dove specificavo, oltre all’elenco delle mie fonti, i passaggi in cui il testo non coincide con quanto è accaduto davvero».
In quel libro Hardy, una delle menti inglesi più brillanti del suo tempo (l’azione si svolge a Cambridge nel 1914), pensa che la matematica sia la rigorosa verifica di verità relative, mentre l’indiano Ramanujan è persuaso che i numeri siano un riflesso della metafisica. Da una parte spicca una concezione illuministica che scinde l’emotività dalla ragione, delineando un mondo fondato sulla razionalità e un altro “naturale”, colmo di emozioni non controllabili. Dall’altra parte, la ragione non detta leggi e non c’è confine tra natura e cultura. Questa differenza di punti di vista comporta due idee diverse di fedeltà?
«Certo. Le rispondo spiegandole le propensioni verso il matrimonio dell’ateo illuminato Hardy e dell’hindu genialmente “magico” Ramanujan. Per Hardy il matrimonio appartiene al cristianesimo, di cui rappresenta un aspetto pernicioso e oppressivo che lui vuole respingere e biasimare: la ragione illuministica non crede nella fedeltà. Invece Ramanujan, come hindu devoto, accetta che il suo matrimonio sia organizzato dalla famiglia e stabilito in base a un apparato religioso e astrologico che dà poca o nessuna enfasi alla cruciale visione occidentale dell’identità individuale, né tanto meno al principio, altrettanto radicato in Occidente, secondo cui l’unione legalizzata di due persone deve avvenire per amore».
Leonetta Bentivoglio, la Repubblica 25/8/2014