Paolo Salom, Corriere della Sera 25/8/2014, 25 agosto 2014
PICCOLI BUDDHA IN FUGA DAL REGIME
Sfilano come statue votive lungo le strade di fango, cicatrici color ruggine che intersecano e definiscono il campo di Mae La, di qui le case, di là la giungla che inonda ogni spazio non costruito lungo la frontiera tra Thailandia e Birmania. I loro volti affrescati con i colori della gioia, sul capo corone di fiori intrecciate al tessuto, sul corpo di giovani non ancora adolescenti, i preziosi tessuti che simboleggiano una ricchezza solo sognata. Ta Pwe, “andare avanti”, così è definita la cerimonia di iniziazione che da epoca immemore segna il tempo religioso dei Karen buddhisti, minoranza birmana sfuggita decenni or sono all’esercito dei generali e approdata in questo rifugio che doveva essere provvisorio ed è diventato la loro città di smeraldo, una metropoli di palafitte e foglie di palma, senza corrente elettrica o acqua che non sia trasportata a braccia dal fiume, nel mezzo del nulla, stretta tra due eserciti che continuano a guardarsi con sospetto.
La Birmania è cambiata. Ma i profughi Karen (nel campo vivono oltre 45 mila persone, molti di loro professano la fede protestante) restano ancorati all’unica certezza che hanno: la vita, spartana e fatta di essenziale, del campo di Mae La, a qualche decina di chilometri da Mae Sot, in Thailandia. Lo si raggiunge lungo una strada poco trafficata che fende la foresta pluviale e si arrampica in curve sinuose che hanno il cielo come unico punto di fuga. Mae La compare all’improvviso, non annunciata da cartelli o posti di blocco. Di colpo si intravedono le case arrampicate lungo i pendii strappati alla giungla a forza di braccia.
A vederla dal basso, sembra quasi che i Karen debbano lottare a ogni risveglio per non essere respinti dal verde folgorante dei tropici. Se si ha fortuna, si arriva durante la festa che annualmente sottolinea l’iniziazione dei giovani, accolti tra i monaci per un periodo di istruzione e immersione nei precetti buddhisti. Alcuni di loro torneranno a casa dopo qualche mese, altri resteranno in santità per la vita.
In tutto il Sud-Est asiatico, legato alla scuola Theravada (in sintesi: il fedele può sperare di accarezzare l’illuminazione, e dunque interrompere il ciclo delle reincarnazioni, solo grazie ai suoi sforzi personali, e non attraverso mediatori) i ragazzi sono tenuti a trascorrere un periodo nei monasteri. È una tradizione molto sentita ed è allo stesso tempo un momento di gioia e tristezza per le madri che per la prima volta si separano dai loro figli maschi.
I festeggiamenti cominciano alla vigilia del Ta Pwe con balli e musica che supera in intensità le voci della foresta. Le famiglie offrono il tè agli ospiti. E il novizio, dopo essere stato truccato e vestito a simboleggiare il fasto del principe Siddharta Gautama - colui che divenne il Buddha, l’Illuminato, dopo aver abbandonato la sua vita regale - in assenza di cavalli viene caricato sulle spalle di un familiare, e fa il giro di tutto il campo visitando casa per casa amici e parenti.
Ta Pwe, dunque, andiamo avanti. Come riproduzioni di piccoli Buddha, i ragazzi si mostrano al mondo. I loro copricapi imitano con il lustro cromatico dei fiori l’aureola di sacralità che orna qualunque immagine del Santo. Al collo e alle orecchie i gioielli che solo un ricco come Siddharta poteva avere prima di rinunciare a tutto per dare inizio al credo Buddhista. E così questa maratona allegorica si chiude quando i ragazzi raggiungono la sommità della collina dove si trova il monastero di Thirisanda.
Il rituale rappresenta la partenza del principe Siddharta Gautama dal palazzo reale, in India, dove viveva lussuosamente con moglie e figlio, per mettersi dietro le apparenze - birmania in cammino alla ricerca delle Quattro Nobili Verità. Al campo di Mae La, dove il benessere può essere solo sublimato, i monaci ricevono i piccoli novizi e le loro famiglie ebbre di emozione e orgoglio. È il momento di abbandonare le vesti sontuose di raso e seta per indossare gli abiti dell’umiltà, bianchi e senza orpelli. E, soprattutto, è il momento di affrontare la cerimonia del taglio dei capelli. O meglio della rasatura, perché da questo momento in avanti, come “apprendisti monaci”, i giovani dovranno avere il capo completamente nudo, simbolo della rinuncia alle vanità mondane.
Non è una recita, non è una finzione. I novizi vivranno come tutti i monaci, in povertà, indossando da quel giorno in avanti, al posto degli abiti immacolati, la veste zafferano che nel settembre-ottobre 2007 divenne il triste vessillo della rivolta birmana. Questo significherà adattarsi alle privazioni e alle regole che si tramandano da millenni in questa parte dell’Asia: sveglia prima dell’alba, studio e recitazione dei testi sacri, questua, casa per casa, per ricevere le offerte in natura che diventeranno poi l’unico pasto della giornata. È così che si diventa adulti a Mae La, è così che si affronta il passaggio verso la responsabilità.
D’altro canto, le alternative non sono poi tante. Ora la frontiera è calma. Ma, nella stagione secca, non era inconsueto che i militari birmani sparassero colpi di mortaio contro quelli che consideravano nemici, di quando in quando.
I segni ci sono ancora, nell’unico “ospedale” del campo, una palafitta un po’ più grande che ospita ragazzi segnati per sempre da una guerra che nemmeno sapevano di dover combattere. Altri orizzonti? La giungla non ne regala. Soltanto i volontari, missionari e occidentali laici che hanno scelto di condividere un’esistenza di privazioni, ogni tanto riescono a offrire a qualche ragazzo o ragazza più brava negli studi un biglietto per un’università americana o europea, unico passaporto per una vita diversa.
Ma sono gocce in un oceano che si muove - a volte pacificamente, a volte con improvvise quanto letali burrasche - in un circolo perenne e monotono. È la vita di Mae La, è l’esistenza della città nella giungla, con una sola entrata e nessuna uscita. Tranne quella del sogno e del sacrificio, atteso come un dono dei giovani monaci nel giorno del Ta Pwe.