Mirella Serri, La Stampa 25/8/2014, 25 agosto 2014
PERCHÉ LA RABBIA DEI BAMBINI NON CI PRESENTI IL CONTO
[Intervista a Bruno Tognolini] –
«Lo so io come sono i bambini! / Lo so meglio dei bambini!»: Bruno Tognolini, straordinario cantore dell’infanzia in rime, filastrocche, racconti, è anche un folletto dispettoso, un poeta-narratore-monello che tira sassate. E che ama polemizzare: «Questo mio verso sulla saccenteria degli adulti nei confronti dei piccoli testimonia la mia insofferenza verso tutti quelli che dicono di conoscere con certezza gusti e preferenze dei ragazzini». Un esempio? «Tempo fa un regista corredava le allegre e piacevoli puntate del programma Melevisione di Raitre con musiche assai colte, elaborate e austere. Alle riserve di noi autori che quelle note dodecafoniche non erano per giovanissimi, obiettava: “I bambini non sono degli stupidini”. Lo sento ripetere da anni. Dagli scrittori che al teatro per ragazzi mettono in scena storie cupe e tremende, dalle mamme vegetariane che infliggono ai figli becchimi e crusche varie, dai magistrati che propinano alle scolaresche lezioni sulla Costituzione, dalle professoresse universitarie che consigliano le poesie di Alda Merini, da tutti ho sentito sempre lo stesso ritornello: “I ragazzini apprezzano e capiscono tutto”».
È un fiume in piena, il maghetto Tognolini - detto anche il draghetto sardo (è nato a Cagliari nel 1951) o il novello Gianni Rodari per l’impegno civile dei suoi testi - quando parla dei suoi amati interlocutori. A loro ha dedicato una trentina di volumi, programmi per la tivù - L’albero azzurro, Melevisione - e opere multimediali e interattive (il cd-rom Rimelandia, realizzato con Roberto Piumini, l’adventure game Nirvana x-rom tratto dall’omonimo film di Gabriele Salvatores, i testi per la pellicola d’animazione La gabbianella e il gatto di Enzo D’Alò, dalla favola di Sepúlveda). Affabulatore itinerante e instancabile, transita per scuole, fiere, palcoscenici in cui passa da Nietta, bambina in cerca del Fiore Domani, alle liriche come formule magiche contro i malanni («Vola libellula, vola parola / Portati via questo mal di gola»), contro il disastro ambientale o per salvare la Farfalla pazza («Un brutto giorno su una bella piazza / ci svolazzava una farfalla pazza. / Pinotto Pollice, che era un mangione, / voleva farsela per colazione. / Rebecca Indice, sempre arrabbiata, / voleva darle una bella sgridata. / Sandrone Medio, un po’ tardivo, / voleva prenderla senza motivo»). Tutto con la consapevolezza che i bambini sono un mondo assai speciale.
«Non sono dalla parte dei ragazzini contro gli adulti», spiega lo scrittore con i riccioli sale e pepe, gli occhi sgranati e leggermente spiritati come un elfo o uno degli esserini da lui inventati. «Sarebbe una forma di ruffianeria. Sono contro coloro che non capiscono che l’infanzia è un mistero, un mondo abitato da extraterrestri di cui bisogna interpretare la natura».
Quando ha intuito che il suo destino era quello di apprendista stregone, di elaboratore di riti e miti per i più piccini? «In quarta elementare mi alzo in piedi e recito: “Bello e gentile / nasce l’aprile / alberi e fiori / multicolori / portano via / i nostri dolori”. Il maestro mi viene incontro, mi abbraccia e sul registro disegna un bel nove. Da allora agli scolari che mi interrogano sulle strategie per diventare scrittori dico: “Scrivi una cosa che non ti ha chiesto nessuno”».
Comincia così la sua vita di letterato dedicata ai giovani? «Per nulla. A scuola ero studioso, ho preso addirittura due diplomi, uno di maturità classica e uno magistrale. Non ho mai insegnato. Come non ho mai fatto il medico dopo aver intrapreso e poi abbandonato gli studi di medicina. A Bologna ho frequentato il Dams, il celebre istituto universitario con Umberto Eco, Giuliano Scabia e Gianni Celati. Si faceva teatro per le strade e nello spazio degli “scontri-incontri”. In casa si cucinava con il fumo dei lacrimogeni: erano gli anni ruggenti in cui studenti e polizia si fronteggiavano. Ho collaborato al Centro Teatrale Roselle e, tormentato dalla mia balbuzie, mi sono ostinato a scrivere per un teatro come quello di Eugenio Barba e di Jerzy Grotowski, i miei maestri, che, all’epoca, non aveva bisogno di testi. Poi con il mio gruppo ho avuto un’idea brillante: dedicarci agli spettatori forzati ovvero alle scolaresche che venivano portate a teatro. L’esperienza del palcoscenico a fianco di Gabriele Vacis, Marco Paolini e Marco Baliani mi ha insegnato a prendere in considerazione i miei lettori e ad avere uno stretto rapporto con il pubblico».
Lei è autore di testi multimediali: i videogame sono una palestra per la crescita? «Hanno una funzione fondamentale, esercitano la logica, aiutano a raccontare storie, evitano gli equivoci linguistici. Come le cosiddette “parole chimera”, frasi di bambini che mettono in discussione formule e stereotipi abusati. Un assaggio? Vanno da “non nominare il nome di dio in bagno” a “dacci oggi il nostro pane e poi vediamo” a “l’Impero colpiscia ancora” per indicare il secondo episodio della saga di Guerre stellari. Meglio dunque i giochi elettronici dell’educazione degli adulti che rovesciano sui ragazzi le loro frustrazioni e i loro desideri».
Il poeta maghetto-draghetto, insomma, con tutta la sua voluminosa produzione suggerisce di non abusare della pazienza dei bambini. Leggere per credere, nelle Rime di rabbia, lo Scongiuro contro il nazismo futuro: «Forse non c’è bisogno che indovini / Per sapere che arriverà il futuro / Speriamo che la rabbia dei bambini / Non ci presenti un conto troppo duro».
Mirella Serri, La Stampa 25/8/2014