Marco Demarco, Corriere della Sera 25/8/2014, 25 agosto 2014
SE DARE L’ELEMOSINA AIUTA IL RACKET
Quando il senso morale è alle strette, anche la sintassi si adegua. E così in un supermercato di Catania l’altro giorno è apparso un cartello che invitava a «non elemosinare» gli zingari . La motivazione, visto il luogo, non poteva che essere di natura contabile: loro, i questuanti, guadagnano da 60 a 80 euro al giorno, più di un operaio specializzato, e in più non pagano le tasse. Quel cartello era dunque una testimonianza di patriottismo fiscale? Non esattamente. Nelle stesse ore, infatti, molti sindaci del Nord hanno firmato provvedimenti contro l’accattonaggio, e qualcuno si è anche spinto fino a ordinare il sequestro del denaro raccolto.
Da Catania a Rovereto, accanto a un’Italia che accoglie profughi e naufraghi e che si impegna ad attuare piani «di ammissione umanitaria», sta dunque emergendo un altro Paese, parallelo a quello, ma più cinico, privo di scrupoli e senza pietà? No, non è così. Nessuno può escludere che nel mucchio delle ordinanze sindacali e di avvisi ai clienti ci sia materia che abbia a che fare con il razzismo e con l’intolleranza. Tant’è che in molti si sono già fatti sentire: «Ricordatevi che Gesù, dal tempio, cacciò i commercianti, non i mendicanti»; «la povertà va combattuta, non multata»; «guai a confondere l’accattonaggio con il benessere simulato». Se questo può confortare, l’hashtag #elemosina tracima indignazione. Ma il punto è che al netto di tante situazioni particolari e di tanti opportunismi più o meno elettorali, la ragione dominante che sembra ispirare i sindaci è di quelle che non possono essere respinte con un’alzata di spalle. Dietro l’accattonaggio, denunciano infatti, spesso c’è il racket: il racket delle elemosine, è così che si chiama, ormai. E dietro quel racket ci sono bambini ridotti in schiavitù, uomini e donne che devono consegnare ogni sera al loro boss non meno di cinquanta euro, perché altrimenti all’umiliazione morale si aggiunge anche quella fisica. Dare un euro a chi ti pulisce il parabrezza o ti ferma al semaforo vuol dire allora finanziare tutto questo.
Due anni fa le cronache raccontarono di un tale, Ibram «Lahu» Saba, che a 40 anni era diventato il capo assoluto dei «sottomessi» milanesi. Gli investigatori calcolarono un giro di affari di un milione di euro e, nel patrimonio personale, spuntò perfino una villa a Medgidia, nei pressi di Costanza, in Romania. Pochi mesi dopo fu l’allora ministro Cancellieri a lanciare l’allarme e a parlare di «interessi criminali che finiscono per colpire le persone più fragili e indifese». Quello del racket, insomma, non è un sospetto o una pista in attesa di conferme. È un fatto.
Succede, però, che talvolta un surplus di conoscenza possa comportare un deficit di coscienza. Nel nostro caso, sappiamo che c’è il racket: e allora cosa facciamo quando scatta il rosso e quel bambino si avvicina? Un tempo, l’ideologia aiutava: in chiave anticapitalista e anticolonialista, Mao Tse-tung suggeriva di insegnare al povero a pescare, perché così lo avresti sfamato per sempre. Per i rivoluzionari metropolitani la scusa fu buona per non sganciare neanche una lira. Giammai. Ma ora? Ora che anche la Chiesa non crede più, con San Tommaso, che la proprietà privata sia un’ipoteca sul prossimo, può valere il suggerimento di papa Francesco: «Se vuoi fare l’elemosina, non lasciare cadere la moneta, ma guarda negli occhi chi vuoi aiutare».