Franco Venturini, Corriere della Sera 25/8/2014, 25 agosto 2014
IL GRANDE CAOS E L’ONU ASSENTE
Il tempo dell’orrore non ci ha raggiunti all’improvviso. I tagliagole dell’Isis che oggi massacrano le minoranze religiose in Iraq si esercitano da più di tre anni nella confinante Siria, dove combattono contemporaneamente contro l’esercito di Assad e contro una resistenza islamica meno assetata di stragi. Duecentomila morti, sei milioni di profughi: questo è il biglietto da visita (provvisorio) della guerra civile in Siria. E noi, l’Occidente civile e potente, cosa abbiamo fatto per mettere fine allo scempio? Con tempi e modalità diversi, perché non ricordare che oggi si uccide anche in Libia, anche nel Sahel, anche in Somalia, anche in Afghanistan, anche nell’Africa centrale, anche a Gaza e in Israele, anche in Ucraina, mentre si teme il peggio nel Mar cinese meridionale?
Ora Barack Obama estenderà forse i suoi bombardamenti al territorio siriano. Per indebolire l’Isis, per colpirlo meglio in Iraq, per difendere certo le minoranze ma anche per tutelare i lucrosi accordi petroliferi conclusi con i curdi. E per evitare lo spauracchio peggiore, il rischio di una caduta di Bagdad che domani potrebbe costringerlo a ben altri interventi. Obama per tre anni non si è mosso (armi chimiche a parte, e fu Putin a farci miglior figura). Adesso esita, e proietta una confusione peraltro comprensibile: pur di colpire l’Isis, gli Usa possono schierarsi oggettivamente con Assad? E che dire all’opinione pubblica, che da un lato lo critica perché è debole ma dall’altro non vuole più soldati americani impegnati all’estero?
In democrazia non è possibile ignorare l’opinione pubblica. Bisogna semmai guidarla, quando si ha il peso necessario per farlo. Ed è un segno dei tempi che questo peso a sostegno del messaggio giusto lo abbia mostrato sin qui, in ben altra sfera, soltanto papa Francesco. Prima con una sintesi di assoluta esattezza: «siamo alla terza guerra mondiale spezzettata». Così è, dal momento che non esiste più un ordine globale, che il sangue scorre all’interno di cornici regionali, che le componenti religiose, etniche e tribali si confondono con interessi geostrategici soprattutto energetici, che l’Occidente è un concetto in oggettivo ripiegamento (persino la Nato spera nell’Ucraina per tornare alle origini e così sopravvivere all’Afghanistan).
Ma del messaggio di papa Francesco una parte sembra essere andata perduta. Lui, capo della Chiesa, non può invocare in proprio bombardamenti o guerra. Sia l’Onu a stabilire il modo per fermare l’aggressore, ha detto. Ancora parole cruciali, per chi vuole capirle. Il sistema internazionale ha regole tanto antiche (il dopoguerra) da risultare privo di regole. Eppure la stessa Onu aveva affermato la «responsabilità di proteggere» proprio per affrontare le crisi militar-umanitarie. Nella pratica non se ne è fatto nulla. Il fatto è che nel mondo del grande disordine l’Onu va cambiata ben oltre la riforma del Consiglio di sicurezza. Che deve esistere un esercito vero alle dipendenze di un Segretario generale vero. Che le potenze devono contribuire a questa evoluzione malgrado le attuali ostilità culturali e i contrasti d’interesse. Che l’Europa deve fare la sua parte non alimentando la retorica su una politica estera comune che non può esistere senza una forte avanzata integrazionista (con o senza Ashton, con o senza Mogherini) ma piuttosto promuovendo questa avanzata.
Il mondo è cambiato, eppure sul tema della sicurezza collettiva è fermo alla caduta del Muro di Berlino. Che ce lo debba ricordare papa Francesco è una dura lezione, ed è anche un monito.