Barbara Corrao, Il Messaggero 25/8/2014, 25 agosto 2014
TIMORI PER IL GAS, DA TRIPLO IL 15% DEL FABBISOGNO ITALIANO
Libia uguale petrolio. E gas. Con un interscambio commerciale che, fino a tutto il 2013, ha mantenuto un valore di 11 miliardi sebbene sia crollato (-37,2%) l’import nazionale di idrocarburi. È soprattutto nell’energia che si concentrano gli interessi economici italiani in Libia dove, in pieno caos e guerra civile, l’Eni mantiene i suoi uomini e continua, in base all’ultima Strategy presentation di luglio, a produrre un quantitativo variabile tra i 230 e i 250 mila barili equivalenti petrolio al giorno. La Libia è per l’Italia un asset strategico: il Greenstream di Mellitah fornisce il 15 per cento dei consumi di gas e da qui viene un quarto del nostro petrolio. Un quantitativo che ha registrato oscillazioni vertiginose, negli ultimi due-tre anni e che continua a risentire della crisi senza fine nella regione.
RISCHIO ALLE STELLE
Naturalmente, tutte le stime sono legate alla guerra e quindi sottoposte ad una forte alea in un Paese che ha raggiunto l’indice di rischio di 7/7 nella graduatoria Ocse, in costante deterioramento dal 2011 in poi. Per questo nel considerare l’insieme dei rapporti commerciali con la Libia, più che mai occorre tracciare una linea tra il prima e dopo Gheddafi. Finché il Raìs ha conservato il potere, gli interessi italiani spaziavano dal petrolio alle telecomunicazioni, passando per le costruzioni e i trasporti. In testa alla classifica le grandi aziende dell’energia come Eni, Snam Progetti, Edison, Tecnimont, Saipem. Ma la presenza italiana era ben organizzata anche nelle costruzioni ed opere civili con Impregilo e Bonatti, Garboli-Conicos, Maltauro e Enterprise; nell’ingegneria con Techint e Technip; nei trasporti con Iveco, Calabrese, Tarros, gruppo Messina, Grimaldi. Fino a due settimane fa quando la Farnesina ha riportato in Italia gli ultimi italiani, continuava ad essere presente Agusta-Finmeccanica (è suo il 50% della joint venture Liatec per la produzione di elicotteri), Salini Impregilo, ma anche la folta pattuglia delle aziende più piccole eppure molto attive come l’Euroelettra di Reggio Emilia o la Demont di Genova. L’Eni trascina l’indotto di bandiera In Libia hanno lavorato anche imprese italiane delle telecomunicazioni come Sirti, dei mangimi (Martini Silos e Mangimi), della meccanica industriale (Technofrigo - impianti refrigerazione e Ocrim - mulini), dei cavi come Prismian Cables. In totale, si calcola fossero 130 le aziende italiane presenti in Libia già prima dello scoppio della guerra e circa 200 gli ”irriducibili” tra imprenditori e consulenti ancora attivi.
ADDIO ELDORADO
Gli italiani evacuati non hanno, comunque, abbandonato la speranza. «È qui la nostra America» ripetevano in tanti prima di salire a bordo dell’aereo che li avrebbe riportati al sicuro in Italia. Resta la volontà di tornare anche perché si calcola che il credito italiano nei confronti della Libia abbia raggiunto ormai circa 3 miliardi, per metà concentrati in mano ai privati come l’Agusta che aspetta il pagamento di 500 milioni da Tripoli o Salini Impregilo che dovrebbe incassarne 900 per i lavori dell’autostrada tra Bengasi e la frontiera egiziana se si farà. Tutto bloccato. Come sono ferme, per ora, le partecipazioni libiche in Unicredit (2,9%) e Finmeccanica (2%).