Andrea Montanari, MilanoFinanza 23/8/2014, 23 agosto 2014
RIPAGATA LA FIDUCIA
La clamorosa e inattesa uscita di Andrea Guerra da Luxottica, dopo 10 anni di guida operativa del leader mondiale dell’occhialeria segna uno spartiacque per Piazza Affari. Innanzitutto, perché non pareva d’attualità l’interruzione di un matrimonio, iniziato il 27 luglio 2004, che finora ha prodotto risultati ragguardevoli (i ricavi sono balzati da 3,25 a 7,3 miliardi) e una crescita esponenziale del titolo (+177,7%), oltre ad avere garantito ai soci un dividendo complessivo di 1,94 miliardi (la Delfin del fondatore Leonardo Del Vecchio ne ha incassati 1,3 miliardi). E poi perché, nonostante un carattere poco malleabile, a tratti spigoloso, il manager nato a Milano nel 1965 ma cresciuto a Roma, è sempre stato considerato uno tra i più preparati in assoluto, alla stregua di Vittorio Colao, capo globale di Vodafone, e di Sergio Marchionne, colui che proprio a partire dal 2004, ha risanato la Fiat e voluto l’acquisizione di Chrysler. Ma forse proprio l’eccessiva consapevolezza dei propri mezzi, unita alla voglia di comandare in prima persona (con Del Vecchio comunque nume tutelare e padre paziente) è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso e ha portato all’oneroso divorzio: si stima che in totale, l’esperienza decennale in Luxottica, frutterà a Guerra, tra stipendi, laute stock option (35 milioni netti solo nei mesi scorsi), buonuscita (almeno 9 milioni), patto di non concorrenza e altre spettanze, circa 140 milioni. Una cifra monstre che servirà al manager per avere le spalle coperte nel caso scendesse davvero nell’arena politica tra le fila del Pd a fianco del governatore del Lazio, Nicola Zingaretti.
L’addio di Guerra arriva tra l’altro a breve distanza dalla triplice e non certo agevole uscita, voluta dal governo Renzi, di Paolo Scaroni dall’Eni, di Fulvio Conti da Enel e da Flavio Cattaneo da Terna. Manager che da anni gestivano le tre big di Piazza Affari a riferimento statale; mentre Alessandro Pansa, una vita in Finmeccanica, era però al comando della società da meno tempo. Proprio lo scossone registrato da Luxottica, il cui titolo dopo l’iniziale sbandata (-6% in apertura di seduta, mercoledì 20 agosto, quando il titolo ha bruciato 700 milioni di market cap) ha tenuto, come dimostra la chiusura di venerdì 22 (-0,28%), offre lo spunto per valutare capacità e risultati dei manager non espressione della proprietà più longevi di Piazza Affari. MF-Milano Finanza ha preso in esame le dieci aziende che contano gli amministratori delegati esterni più fedeli, ovvero i manager non membri della famiglia dell’azionista di riferimento. Si tratta di Giovanni Castellucci (Atlantia), Gianmario Tondato Da Ruos (Autogrill), Aldo Mazzocco (Beni Stabili), Bob Kunze-Concewitz (Campari), Sergio Marchionne (Fiat/Fca), Marco Milani (Indesit), Valerio Battista (Prysmian), i banchieri Alberto Nagel (Mediobanca) e Victor Massiah (Ubi) e l’assicuratore Carlo Cimbri (Unipol). Con la premessa che se un dirigente resta a lungo in azienda, senza esserne il proprietario, significa che il lavoro ha prodotto risultati apprezzati dal mercato e dai soci, emerge che non tutti i manager stanno seguendo le orme di Guerra.
E se l’andamento del titolo di ogni singola società va preso con le pinze, perché non è rappresentativo solo dell’andamento del business ma subisce anche le turbolenze delle piazze finanziarie di tutto il mondo e la crisi congiunturale in atto, i bilanci parlano chiaro. Ad aver fatto a pieno il proprio dovere sono Marchionne e Kunze-Concewitz, quest’ultimo non a caso finito nella lista di possibili successori dell’ad uscente di Luxottica (anche se ha già spento le voci di passaggio). La Fiat nei dieci anni di gestione del manager nato a Chieti ma canadese d’adozione ha cambiato volto raddoppiando i ricavi. Il punto di svolta è arrivato con il deal Chrysler, benedetto dal presidente degli Usa Barack Obama, che porterà il titolo Fca sul Nyse (la sede legale ad Amsterdam, il domicilio fiscale a Londra e la base a Detroit). Sotto la guida di Marchionne le azioni Fiat hanno guadagnato il 179,4%. Ora manca solo il business plan, il vero banco di prova. A brindare è anche l’ad di Campari: in sette anni di gestione Kunze-Concewitz, la società di Sesto San Giovanni ha messo a segno oltre venti acquisizioni per una presenza sempre più capillare in tutto il mondo. I numeri parlano da soli, la performance di mercato (+50,5%) pure.
Progressione costante nei conti, scelte strategiche forti (la scissione del business e la quotazione di Wdf) e risultati positivi a Piazza Affari fanno di Tondato da Ruos, in Autogrill da 11 anni e mezzo, un altro manager vincente. Al punto che la famiglia Benetton se lo tiene ben stretto anche se c’è chi dice che prima o poi se ne andrà. Va poi sottolineato che con la contrazione dei consumi le cose non vanno più come fino a un paio d’anni fa e Autogrill sta rivedendo il posizionamento sul mercato italiano.
Altra case history di successo, legata soprattutto al ruolo del ceo, è quella di Prysmian, vera public company. Battista, già dirigente di Pirelli Cavi, è l’uomo-azienda: dopo l’acquisizione da parte di Goldman Sachs, la quotazione in borsa e il deal con Draka, il gruppo italiano è diventato il leader mondiale nel business dei cavi sottomarini. E se le grandi conglomerate del settore puntano al boccone grosso è difficile, per la governance societaria, che da predatore dei mari, Prysmian diventi preda.
Per uno strano caso del destino è Indesit, l’azienda dalla quale proviene Guerra, ad avere più sofferto in borsa. Ma non certo per colpa di Marco Milani, il successore scelto dalla famiglia Merloni (era in azienda dal lontano 1980), che è stato infatti confermato anche dai nuovi proprietari, gli americani di Whirpool. Milani ha dovuto fare fronte a una delle crisi più gravi che abbia colpito il settore degli elettrodomestici, in particolare il bianco. Va anche a onore del vero sottolineato che le divergenze di vedute tra gli esponenti della famiglia di Fabriano non hanno agevolato un diverso percorso per Indesit che resta comunque uno dei big europei. Solo che perde fatturato e margini in maniera evidente: basti dire che l’utile è caduto da 100 a 3,2 milioni. E che in borsa l’azione dal 2004 ha perso un quarto del suo valore.
Complice il tracollo del mercato immobiliare non è positiva nei numeri la gestione di Beni Stabili targata Aldo Mazzocco, ad dal 2001. Il gruppo di real estate che fa capo sempre a Del Vecchio è riuscito a mantenere in linea i ricavi ma ha chiuso gli ultimi due anni in perdita (2012, -15,7 milioni e 2013, -4,2 milioni) con il debito salito da 1,4 a 2,3 miliardi. Il saldo in borsa è però positivo: +35% contro un calo dell’indice del settore del 63,4%.
Dall’industria alla finanza giudicare l’operato degli ad è assai differente. Perché, nel caso di Alberto Nagel, in Piazzetta Cuccia dal 1991 fino a diventare dapprima dg (14 aprile 2003, la data di riferimento per l’analisi di MF-Milano Finanza) e poi nell’ottobre 2008 ad, Mediobanca non è solo una banca d’affari. Ma è, per natura e storia, un centro di potere, un crocevia degli interessi delle principali aziende italiane. La raccolta è balzata da 19 a 41 miliardi (grazie anche alla nascita di CheBanca!) mentre sul risultato netto dello scorso esercizio hanno pesato le svalutazioni delle partecipazioni. E anche il titolo ha risentito dalle bufera che ha travolto i mercati: -5,7%. Ma appunto per giudicare Nagel bisogna oggettivamente tener conto delle mosse strategico-politico: la nuova governance, la nuova strategia meno salottiera e le tante partite gestite negli ultimi anni.
Altra cavalcata di successo, seppure con qualche intoppo giudiziario è quella di UnipolSai sotto la guida di Carlo Cimbri, a Bologna dal 1999, dal 2007 dg e dal 2010 ad. Il manager sardo è colui che ha definito l’acquisizione di FonSai facendo della compagnia delle coop il secondo player nazionale alle spalle di Generali. I numeri e le strategie sono dalla parte di Cimbri.
Andrea Montanari, MilanoFinanza 23/8/2014