George Anders, Wired 20/8/2014, 20 agosto 2014
DIETRO IL SUCCESSO DELLA SILICON VALLEY
[Testo da passare]
Quando Doug Leone arrivò a Mount Vernon (N.Y.) nel 1968, era un ragazzine di 11 anni, un immigrato italiano del tutto spaesato. Si beccò un’insufficienza in un test di matematica, a scuola, perché i termini "true" e "false", ossia "vero" e "falso" lo lasciavano perplesso. Portava degli orribili pantaloni di Sears che lo esponevano alle canzonature dei compagni di classe. Dopo la scuola, da solo, seguiva le puntate di Un equipaggio tutto matto su un televisore in bianco e nero, nella speranza di imparare espressioni colloquiali che lo avrebbero aiutato a inserirsi.
Qualche anno dopo Leone cominciò a orientarsi. «Durante le vacanze estive lavoravo sulle barche, sudando come un maiale», ricorda. «Se alzavo lo sguardo vedevo tutti i ragazzi che sguazzavano nella piscina del country club. Parlavano con le ragazze. E mi dicevo:
"Non vedo Fora di incontrarvi nel mondo degli affari. Avete commesso un gravissimo errore, lasciandomi entrare"».
Ambizione. Vulnerabilità. Rivendicazione. Molti immigrati chiudono in un cassetto questi sentimenti quando hanno successo, e fanno del loro meglio per inserirsi nell’aristocrazia americana. Leone no. E tuttora, dal suo piedistallo di senior partner della società di venture capitai Sequoia Capitai, continua a comportarsi come uno appena sbarcato dalla nave. «Una delle cose che mi spingono sempre ad andare avanti è la paura», confessa.
Proviamo a entrare negli uffici spartani di Sequoia nella capitale del capitale della Silicon Valley, Sand Hill Road, e vediamo cosa succede quando si mette insieme un gruppetto di perfezionisti famelici dello stampo di Leone. Cominciamo dall’atrio, pieno zeppo di copie incorniciate dei documenti di finanziamento di 98 aziende. La hit parade comincia con l’offèrta pubblica iniziale di Apple nel 1980; comprende soggetti come Oracle, Cisco, Yahoo!, Google e Linkedin. Da quando è stata fondata, nel 1972, Sequoia ha finanziato startup che oggi arrivano, insieme, ad avere in Borsa lo strabiliante valore di 1,4 trilioni di dollari, pari al 22% del Nasdaq.
Eppure Sequoia non esibisce il suo patrimonio con quell’orgoglio da benestanti che potresti trovare in altre società di venture di alto livello. Nei suoi uffici, gli storici documenti Ipo (Initial Public Offering) hanno spoglie cornici da due soldi. I partner di Sequoia non dispongono di uffici privati lussuosi; sgobbano alle loro scrivanie piccole e alte, in un grande open space. Le sale riunioni sono fornite di dozzinali cestini della carta straccia in pura plastica. È come se i soci di Sequoia non si fossero resi conto di essere ricchi.
L’anno scorso i metodi grintosi di Sequoia hanno prodotto i maggiori guadagni nella storia dell’azienda. Nella Midas List diForbes, quella dei venture capitalist di maggiore successo, compaiono ben nove partner di Sequoia, grazie ai lucrosi investimenti della società in aziende come Airbnb, Dropbox, FireEye, Palo Alto Networks, Stripe, Square e WhatsApp. Al numero 1 della lista c’è il partner di Sequoia Jim Goetz, che nel 2011 ha appoggiato WhatsApp, ben prima che Facebook decidesse di acquistare per 19 miliardi di dollari la compagnia di messaggistica mobile. Leone è sesto in classifica, seguito dai colleghi Michael Moritz, Alfred Lin, RoelofBotha, Neil Shen, Michael Goguen, Bryan Schreier e Kui Zhou.
Lo stipendio base di Sequoia non è pensato per abbacinare. Le
retribuzioni dei nove partner possono superare il milione di dollari, ma niente bonus garantiti stile Wall Street, e alcuni tra i soci junior hanno accettato decurtazioni dello stipendio, pur di poter aderire. I capitai gain, tuttavia, eccedono largamente la paga base.
Prendiamo il fondo Sequoia XI, che nel 2003 ha raccolto 387 milioni di dollari da circa 40 investitori, in gran parte università e fondazioni. Undici anni dopo Sequoia XI ha fatto registrare 3,6 miliardi di profitti, pari a un rendimento annuo del 41%, al netto delle commissioni. I partner di Sequoia hanno tenuto per sé il 30%, pari a 1,1 miliardi, mentre gli investitori hanno avuto il 70%, pari a 2,5 miliardi di dollari. E si attendono ritorni ancora più giganteschi da Venture XIII (2010) che finora è cresciuto dell’88% all’anno, e Venture XIV (2012).
Sequoia è diventata operativa nel 1972, quando Don Valentine, un burbero direttore commerciale e del marketing della Silicon Valley, decise di lanciarsi nel venture capitai. Piglio di un camionista di Yonkers, N.Y., Valentine aveva un gran fiuto nello scovare i tipi indipendenti e intraprendenti in grado di fondare grandi aziende. Lo troverete nei libri di storia come l’uomo che ha finanziato Steve Jobs nel 1978, anche se il ventiduenne fondatore di Apple, così avrebbe raccontato in seguito Valentine, puzzava di vecchio e «assomigliava a Ho Chi Minh».
Quando Valentine ha ceduto il controllo manageriale di Sequoia a metà degli anni Novanta, gli sono subentrati in tandem Moritz e Leone. In apparenza non hanno nulla in comune. Moritz ha cominciato come giornalista nella rivista Time; è un laureato a Oxford che sforna frasi intelligenti. Leone si è laureato in Ingegneria meccanica alla Cornell e poi ha venduto computer per Hewlett-Packard, Prime Computer e Sun MicroSystems; è uno che comunica le sue idee a forza di imprecazioni. Moritz dopo appena due anni si è conquistato una partnership piena; Leone ha impiegato cinque anni.
Eppure sono entrambi tipi Sequoia, adatti all’ambiente: volitivi, risoluti e pronti a sostenere gli innovatori del mondo. «Ogni volta che investiamo in una piccola azienda è una scommessa», spiega Moritz. «Siamo sempre superati come potenza di fuoco da società assai più grandi della nostra. È incredibilmente emozionante provare a tutti che si sbagliavano. Non c’è nulla di più esaltante». Oggi Leone è un senior partner. Moritz resta un partner attivo negli investimenti, ma nel 2012 ha ridotto gli impegni, dopo che gli era stata diagnosticata una malattia non precisata, ma che nel giro di cinque-dieci anni avrebbe potuto incidere sulla sua qualità di vita.
I partner di Sequoia ogni mese ascoltano oltre 200 proposte, e di solito ne finanziano solo due. E indipendentemente dal fatto che un incontro si concluda con un "sì" o con un "no", i fondatori descrivono l’ora passata con Sequoia come una delle esperienze più intense della loro vita. Moritz è il detective, che ascolta ogni dettaglio della storia di un fondatore, e pone domande eccezionalmente ficcanti. Botha, Lin e Schreier sono i growth hacker, che cercano i modi in cui le startup consumer-oriented possono schizzare ancora più velocemente verso il successo. Goguen e Goetz sono gli artigiani, grazie ai loro 25 anni di esperienza nelle aziende tecnologiche sono in grado di valutare le possibilità di successo di una startup.
E poi c’è Leone. Il ragazzo venuto da Genova ama provocare gli
interlocutori per scoprire chi è abbastanza tosto da avere successo. Tony Zingale, un vecchio lupo della Silicon Valley, ricorda un incontro negli anni Novanta in cui Leone afferrò il rapporto scritto da Zingale e lo scaraventò giù dalla scrivania, ringhiando: "Ma lei che ne sa di come si gestisce una startup?". Litigarono per dieci minuti e alla fine Leone dichiarò: "Okay, adesso sappiamo che sei un figlio di puttana in gamba. Parliamo pure".
Oggi Zingale è il ceo di Jive Software, provider di piattaforme collaborative, finanziato da Sequoia. Leone lo considera un componente della famiglia Sequoia. «È anche lui un italiano focoso, quindi andiamo d’accordo», dice Zingale.
Borge Haid, ceo e cofondatore di Medallia, ha avuto prova della lingua tagliente di Leone nel 2012, quando l’azienda che fornisce servizi di sviluppo di software personalizzati era alla ricerca della sua prima infusione di capitale esterno. La stragrande maggioranza delle società di venture capitai «ci facevano delle gran sviolinate e ci dicevano che eravamo cosi bravi che non avrebbero cambiato nulla», ricorda Hald. «Doug invece ci ha sfidati. Ha detto che avevamo bisogno di un grande sforzo per far crescere le vendite. Ha detto che in un mondo caratterizzato dalla lotta tra energia e caos, noi non eravamo altro che entropia». In questo caso le critiche aspre di Leone hanno pagato; Medallia ha firmato con Leone anche se gli altri offrivano condizioni migliori.
Parte del vantaggio di Sequoia nel rapporto con gli imprenditori deriva dalle sue procedure rapide. Presenti il tuo progetto a Sequoia il lunedì mattina e se tutto va bene quello stesso pomeriggio si può già arrivare a un accordo informale per il finanziamento. Se chiedi un contratto, ti arriveranno gli elementi essenziali in un’unica paginetta, invece di un lungo memorandum degli avvocati. Tra i fan della rapidità di Sequoia c’è Elon Musk, ceo di Tesla Motors. Musk ricorda che nel 1999, quando stava mettendo in piedi quella che poi sarebbe diventata PayPal, Sequoia gli fece un bonifico di 5 milioni di dollari per consentirgli di partire, anche se gli avvocati non avevano ancora finito le pratiche.
«Non ci complicano la vita», spiega Adi Tatarko, ceo di Houzz, una piattaforma di home design. Lei e suo marito, Alon Cohen, hanno fondato il sito nel 2009 e da allora è stata una corsa per farlo crescere. Quando nel 2011 Houzz ha raccolto i capitali, un’altn azienda venture avrebbe magari potute offrire una valutazione superiore. Ma Sequoia si è conquistata la lealtà di Houzz, spiega Adi Tatarko, mostrandosi «molto diretta e davvero veloce».
Tatarko e Cohen sono cresciuti in Israele, Musk in Sudafrica, Hald in Norvegia. Un’analisi dìForbes mostra che un pazzesco 59% delle startup di successo finanziate da Sequoia è nato per iniziativa di almeno un fondatore straniero. Per contrasto, i dati della Kauffman Foundation mostrano che un quarto scarso di tutte le startup statunitensi ha almeno
un immigrato tra i fondatori.
I legami di Sequoia con gli immigrati più brillanti della Silicon Valley non sono casuali. L’italiano Leone lavora gomito a gomito con colleghi che vengono dal Galles (Moritz), Sudafrica (Botha), Taipei (Lin), e dalle vecchie colonie degli Stati Uniti del nord-est, perché anche questi si considerano degli immigrati. I nativi californiani sono una rarità, in azienda.
Così, i partner di Sequoia non si scocciano se devono andare a caccia di nuove startup in caffè squallidi e uffici scalcinati. Altri venture capitalist frequentano i tornei di golf di Pebble Beach e le vippissime riunioni di chiacchieroni che si tengono a Davos e ad Aspen. «Noi lì non ci andiamo», dice Leone. «Gli uomini di domani non si trovano in quei posti».
IL MONDO DEL VENTURE CflPITflLspesso è lacerato dai conflitti. Partner giovani e ambiziosi sono in guerra con i veterani. Nelle aziende infuriano battaglie per decidere chi è bravo e chi è fortunato, chi merita una fetta maggiore di profitti e chi invece dovrebbe essere fatto fuori. Aggiungi qualche guerra personale o una condotta avventata, e nel giro di poco i bisticci dei VC fanno la gioia degli avvocati.
Sequoia è l’eccezione, e da tempo. Grazie a norme ferree che caratterizzano la politica delle assunzioni, la pratica quotidiana del lavoro e gli stipendi è riuscita a mantenere l’armonia al suo interno e a ringiovanire la sua leadership secondo le necessità, senza problemi. I partner più anziani fanno cassa ed escono. Il loro posto viene preso da quelli nuovi. L’azienda è in linea con l’idea di Leone, quella di una famiglia numerosa all’italiana: molte personalità, un sacco di discussioni e la ferma intenzione di restare, nonostante tutto, uniti. Donne? Sequoia non ne ha, agli alti livelli, ma dice che spera di assumerne qualcuna, prima o poi.
«Noi vogliamo persone che abbiano alle spalle una storia umile, e dunque abbiano bisogno di vincere», dice Leone. «E una cultura in cui la gente condivide i meriti». Sequoia assume giovani laureati in economia come junior partner non votanti. Ma i ruoli decisionali vanno a dirigenti tech di solida esperienza come Alfred Lin (Zappos), Bryan Schreier (Google) o Ornar Hamoui (AdMob).
Schreier nel 2008 aveva presentato a Sequoia tré idee di sue startup. A Moritz non ne era piaciuta nemmeno una in particolare non gli era piaciuta l’idea frettolosamente concepita di produrre telefoni con i tasti grossi, per una clientela anziana. Ma, come ricorda oggi Moritz, «la cosa migliore di Bryan era Bryan». I telefoni con i tasti grossi potevano attendere. Sequoia considerava perfetta per l’azienda la personalità franca e schiva di Schreier.
I PARTNER DI SEQUOIA si riuniscono ogni lunedì alle otto del mattino per discutere delle prospettive di investimenti e rivedere le aziende già presenti nel portfolio. Le regole non scritte della casa premiano gli umili. «Si tratta di arrivare alla decisione giusta, non di dimostrare che abbiamo ragione», dice Jim Goetz. «Se parli più di 90 secondi alla volta», aggiunge Aaref Hilaly, nuovo partner (e> Clearwell), «probabilmente ti stai dilungando».
A differenza degli investitori attivisti di Wall Street che cercano di provocare grandi cambiamenti che nel corso di un sol giorno potrebbero far schizzare alle stelle i prezzi azionar! i partner d Sequoia aiutano le aziende in modo continuativo, con le piccoli cose che non giustificheranno mai un comunicato stampa. Quando WhatsApp non riusciva ad assumere ingegneri, Goetz uscì a cena
con almeno una mezza dozzina di candidati, e li rassicurò che quella piccola startup aveva davanti a sé un futuro davvero brillante. Quando John Collison, ventitreenne fondatore di Stripe, aveva bisogno di aiuto per proporre a una grande società finanziaria dell’East Coast i servizi di pagamento della sua azienda, Moritz di Sequoia lo segui e insieme fecero due simulazioni dell’incontro, scambiandosi idee su come rendere più efficace la presentazione.
Quando i partner di Sequoia sono lì a faticare sui dettagli con i fondatori delle startup, gran parte della conversazione è fatta di notiziole raccolte in 42 anni di storia aziendale. Dropbox, per esempio, invita regolarmente il partner di Sequoia Bill Coughran ex capo del settore ingegneri di Google per uno scambio di idee su come continuare a ingrandirsi senza crearsi complicazioni ingestibili.
Nel corso di un incontro avvenuto di recente, Coughran si è appoggiato allo schienale della sedia di plastica e ha rievocato le quattro grandi necessità di engineering della divisione di ricerca di Google, all’epoca in cui il "posizionamento" sembrava eccitante e "l’indicizzazione" squallida. Nessuno voleva indicizzare? Si, ha detto Coughran: nel momento in cui lui aveva parlato del desiderio di Google di far crescere di 30 volte le capacità di indicizzazione nel giro di qualche anno, anche l’indicizzazione all’improwiso era diventata eccitante. Il capo degli ingegneri di Dropbox, Aditya Agarwal, ha sorriso. Ora aveva una nuova tattica a disposizione per far fibrillare le persone anche di fronte alle ricerche di Dropbox.
I fondatori fanno muro se Sequoia offre consigli non richiesti. Nir Zuk, fondatore di Palo Alto Networks, azienda che si occupa di sicurezza informatica, racconta di aver detto a Goetz: «Se vuoi lavorare per me come produci manager, ti assumo al volo. Ma non puoi presentarti ogni sei settimane alle riunioni e dirmi che ne sai di più dei nostri product manager. Non funziona cosi». Tuttavia nel complesso Zuk dice che ciò che apprezza maggiormente di Sequoia è che i suoi partner «sono colleghi imprenditori che hanno passato quel che ora stiamo passando noi. Ci capiscono».
Sequoia non le imbrocca sempre proprio tutte. Nello scoppio della bolla dot-com del 2000 la società ha subito pesanti perdite per fallimenti come quello di eToys e Webvan, un droghiere oniine. In tempi più recenti ha buttato 25 milioni di dollari in Color, un’app fotografica, che ha finito per essere venduta in perdita a Apple.
Il ricorrere di investimenti perdenti è fisiologico. Quel che angustia Sequoia assai di più sono gli incontri con i leggendari "uomini di domani", quando al termine della proposta l’azienda finisce per dire no, invece che si. Pinterest è sgusciata via e lo stesso ha fatto Twitter. Nel 2007 Sequoia ha avuto l’opportunità di assicurarsi una quota del 10% di Twitter, quando l’uccellino implume era valutato appena 20 milioni di dollari.
Vivi e impara. Gli investitori Sequoia nel 2011 hanno indossato il cilicio e tentato di identificare nella loro analisi di Twitter un errore rimediabile. La conclusione: erano stati troppo ostinati nel perseguire il loro obiettivo ideale, ovvero l’acquisizione di una quota del 20-30% delle startup. Il ceo di Twitter Jack Dorsey si era mostrato disposto a vendere solo una quota inferiore. Col senno di poi, dice Botha, Sequoia avrebbe dovuto accettare. E adesso i partner sono disposti a prendere quote minori a prezzi superiori a quelli soliti quando si presenta una startup eccezionale.
Il passo falso peggiore risale al 2006 quando il fondatore di Facebook Mark Zuckerberg provocò Sequoia presentandosi in ritardo a un incontro, e con i calzoni del pigiama, per discutere di un bizzarro business collaterale chiamato Wirehog. L’incontro non andò bene, e Zuckerberg si aggiudicò invece il finanziamento di Accel
Partners, con un accordo che alla fine ha portato ad Accel un guadagno di 300 a 1.
Oggi i rapporti con Facebook sono pacificati; dal 2012 il grosso social network ha pagato una cifra assai alta per due aziende finanziate da Sequoia, Instagram e WhatsApp. Perfino Moritz, che aveva patito durante la presentazione in pigiama, insiste nel dire che quella scena non aveva fatto che accrescere la sua ammirazione per il fegato di Zuckerberg. «Alla fine della presentazione», ricorda Moritz, «c’era questa slide che diceva: "Una produzione di Mark Zuckerberg". Ricordo che in segreto avevo ammirato la faccia tosta e la sicurezza di sé necessario per mettere una scritta come quella. Io alla sua età non ne avrei mai avuto il coraggio».
Gli altri venture capitalist rendono omaggio ai risultati di Sequoia. Con qualche smorfia sul suo stile. «Grande
— rispetto», dice David Sze di Greylock Partners. «Siamo entrambi completamente impegnati a fare emergere imprese di successo. Loro sono un pochino più pungenti, noi un po’ più collaborativi».
Anni fa, quando i fondatori di Kayak Steve Hafner e Paul English stavano proponendo il loro motore di ricerca di viaggi, Hafner aveva chiesto ai partner di Sequoia di aiutarlo a testare il servizio con qualche aeroporto. E quando Leone aveva esitato un burlone era intervenuto per dire: «Doug non ne conosce. Vola solo su aerei privati». Era una battuta maliziosa nei confronti del parsimonioso Leone, che all’epoca volava con United e aveva appena acconsentito, con grande trepidazione, ad assicurarsi poche ore Fanno di un servizio jet privato, tramite NetJets. Ma Hafner non lo sapeva. Gli avevano rovinato il gioco e la presentazione stentò. I due inizialmente furono respinti, prima che English tornasse non invitato l’indomani, convincendo Sequoia a concedere a Kayak un riesame.
Nella Silicon Valley gira l’immagine stereotipata dei venture capitalist che s’irrigidiscono quando le aziende barcollano e invece hanno fretta di fare cassa quando le cose stanno andando bene. Sequoia ribalta questi luoghi comuni. Ceo come Brad Peters di Birst, un’azienda software di business-intelligence, dice che Sequoia concede loro il tempo e l’aiuto necessari per aggirare gli intoppi. Però Sequoia diventa insaziabile quando vede un’azienda andare bene e si convince che potrebbe fare anche meglio.
Nel corso di una cena tenutasi di recente a San Francisco con una dozzina di ceo di aziende del portfolio, per esempio, Lin di Sequoia ha chiesto quanti dei presenti usassero per misurare l’entusiasmo dei consumatori una tecnica chiamata net promoter score o "tasso di passaparola". Si sono alzate quasi tutte le mani.
«E ora, quanti di voi vanno a vedere il perché dei loro rating?», ha incalzato Lin.
«Solo se i numeri non sono buoni», ha risposto un ceo.
«E perché non andate a vedere quando le cose vanno bene?», li ha rimbeccati Lin. Aumenta la dose di quel che colpisce i tuoi consumatori più entusiasti, era la convinzione di Lin, e i ceo possono trasformare una forte espansione in una crescita infernale.
Sequoia è ugualmente ostinata nel voler massimizzare i profitti che vengono dalle sue aziende più performanti. A differenza di altre società di venture, che tengono i fondi di investimento per dieci anni. Sequoia spesso cerca dei modi per allungare la vita della partnership, arrivando anche a 16-17 anni. Sequoia ha tenuto le azioni Google per quasi due anni dopo che l’azienda è stata quotata in Borsa; e negli anni Novanta ha resistito ancora di più con Yahoo!.
Di questa ostinazione ne sa qualcosa ServiceNow, un’azienda software che fornisce servizi di help-desk ai clienti aziendali. Nel luglio 2011 un pretendente inaspettato si è offerto di acquistare l’azienda per 2.5 miliardi di dollari. Sequoia era diventata un investitore
importante alla fine del 2009, guidando una campagna di raccolta fondi di 41 milioni di dollari, e Leone era entrato nel consiglio di amministrazione. Uscire e incassare in quel momento avrebbe portato a Sequoia un ritorno del 10 a 1 rispetto all’investimento.
Ai dirigenti di ServiceNow quell’offerta è parsa allettante. Solo Leone l’ha considerata offensiva. Mettendo insieme un gruppetto di colleghi, Leone ha elaborato un’analisi di 12 pagine, concludendo che i dirigenti avrebbero svenduto l’azienda anche se la valutazione fosse stata fissata in 4 miliardi di dollari. Ai suoi occhi ServiceNow, pur essendo ancora nella parte iniziale della curva di crescita, per il solo fatto di partecipare a un settore in rapido sviluppo quale era il software-come-servizio, era un’azienda con un potenziale di gran lunga superiore a quello che gli esterni erano in grado di vedere.
Si è discusso un po’ e alla fine ServiceNow ha rifiutato l’offerta. Un anno dopo l’azienda è stata quotata in Borsa, con una valutazione di 2 miliardi di dollari. Lo sdegno di Leone è parso un po’ fuori luogo, finché le azioni ServiceNow non sono decollate dopo l’Ipo. Valore di mercato attuale: 8.3 miliardi di dollari.
La semplice matematica ci dimostra che la testardaggine di Leone ha portato agli azionisti di ServiceNow, e tra questi c’è anche il fondatore dell’azienda Fred Luddy, 6 miliardi di dollari in più. Ma dietro c’è qualcosa di più primitivo: la gente come Leone ricorda quei ragazzi ricchi della piscina, che stavano lì a godersi la vita. Non c’è motivo di rallentare, finché i vecchi rivali non saranno stati lasciati molto indietro, a mangiare la polvere.