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 2014  agosto 09 Sabato calendario

NON È PIU STESSA SPIAGGIA STESSO MARE [TESTO DA PASSARE]

Fadel ha occhiali spessi e un cappellino in testa. E uno dei tanti marocchini che trasporta il suo negozio su un carretto di metallo mobile, due ruote di motorino più grandi al centro e una terza piccola davanti. Quando si ferma si mette all’ombra della miriade di canotti e sistemabocce, secchielli, palette, palloncini, ciambelle gonfiabili. A guardarle da vicino le ciambelle hanno delle strane fattezze: la giraffa non è quella dell’iconografia da cartoni animati classica. Ha le ciglia lunghe, gli occhi allungati e un’aria asiatica. «Certo, mica viene dall’Africa scherza Fadel è fatta in Cina, come tutto quel che vendo. La mercé la prendo dai cinesi a Napoli, i cinesi fanno tutto, daqualche anno ce ne sono molti anche in Marocco» Abdou, che vende borse e sembra conoscere ciascun bagnino e persino bagnante della spiaggia dove lavora, anche lui compra dai cinesi, ma all’Esquilino, la Chinatown romana; quelle firmate finte che lui non vende, vengono «da qualche parte vicino Napoli», spiega senza voler approfondire.
Fadel spinge il suo carretto sulla battigia dove la sabbia è più dura, non potrebbe: secondo la legge quello è lo spazio da lasciare libero per i soccorsi in mare che poi è il motivo per cui negli stabilimenti nessuno può dire nulla se vi sdraiate entro i tre metri dall’acqua. I/ambulante è una vittima della crisi italiana: «Facevo l’operaio, ho vissuto a Bologna dalla metà degli anni’90 fino al 2011, quando la fabbrica dove lavoravo ha chiuso. Facevamo elementi di alluminio per la Ducati». A Bologna sono rimasti i due figli, che studiano in-città?" Fadel, (‘ambulante marocchino, era operaio a Bologna. Orafa avanti e Indietro con II suo Paese mentre lui è tornato in Marocco e viene a lavorare come stagionale qui con il suo negozio. «Vivo da mio fratello a Caserta, lui fa questo lavoro l’estate e poi lavora nei campi, ma pagano due lire e ci si spezza la schiena, meglio fare questo e poi tornare in Marocco».
I cinesi del Guandong che fabbricano i gonfiabili sono Fanello più remoto dell’economia della spiaggia italiana, poi ci sono quelli come Fadel, in aumento specie nelle zone più grandi o vicine alle metropoli. «Gli ambulanti ci sono sempre stati, solo che un tempo erano locali e pochi. Prima i romani, i tellinari e i pescatori, poi i napoletani li chiamavamo così, erano campani poi i marocchini. Sempre gli stessi di anno in anno. Ora è cambiato son tutti più invadenti. Come i ristoranti del centro a Roma» dice Massimo Muzza•-Trin;^tó^"^iirttfqfl5eactr’ai Ostia, stabilimento storico della spiaggia della capitale, 200 mila abitanti, metà stazione balneare, metà dormitorio. E in effetti i bengalesi con gli occhiali e le collanine, vengono da Roma est.
La crisi italiana non ha colpito solo la fabbrica di Fadel, ma si è abbattuta anche sulle nostre spiagge. Pensatevi un momento sdraiati al sole se non ci siete già e cercate di riflettere su quante cose avete con voi che usate esclusivamente nei giorni dell’anno in cui sguazzate e vi arrostite. Pensate a quali creme vi spalmate addosso, quali capini di abbigliamento da mare avete comprato, che cibi diversi mangiate, quante volte cenate mori. E poi pensate al fastidioso parcheggiatore abusivo, all’ambulante, ai mercatini serali, ai concerti in piazza dei cantanti in decadenza e ai festival più cool.
Tutta economia che ruota attorno alla spiaggia. Con la crisi gli effetti negativi toccano tutto l’indotto anche quello più informale.
L’Italia, come e più degli altri paesi del Mediterraneo, ha economie e organizzazioni differenti, legate alla conformazione del territorio e della costa, tradizioni, storie locali, E i dati parlano chiaro: l’industria balneare italiana è in difficoltà (cfr. il box qui sotto). Il calo di presenze sulle spiagge non è però solo colpa della lunga crisi italiana ed europea, ma anche stavolta di un modello affaticato che non ha saputo innovare e ripensare se stesso quando era il momento. Con delle eccezioni.
Tra’800 e ‘900 l’Italia del mare era individuabile nella spiaggia adriatica, dalla Romagna al Frinii e poi da Forte dei marmi alla Liguria. Un turismo per ricchi prima e più popolare poi. «L’idea della vacanza con valenza edonistico-terapeutica, il piacere del bagno di mare e della villeggiatura la ebbe Paolo Mantegazza, medico messo a capo dei bagni di Rimini negli anni ‘70 dell’800. Da qui in poi Rimini accompagna l’evoluzione della società italiana, dalle vacanze di Mussolini alla ricostruzione post-bellica con l’idea di diventare una capitale del turismo per tutti», racconta Pietro Leoni che ha svolto tutta la sua carriera nella città-spiaggia e in Regione ha guidato ogni istituzione legata alla promozione del turismo per molti decenni. «Ma non chiamatelo turismo fordista e standardizzato, che a Rimini, dove l’attenzione alle persone è un must dell’accoglienza, si offenderebbero molto». Il turismo di Rimini è anche l’imprenditorialità di spiaggia per tutti: bar, cabine, ombrelloni, mosconi e pedalò vengono gestiti in maniera separata così da distribuire la ricchezza creata dal turismo.
Ma torniamo alla crisi. Nei primi anni ‘90 cresce in maniera esponenziale la Sardegna che impone anche il modello grottesco dei vip e della caccia ai vip. E poi si sviluppano anche Puglia e la Sicilia. Sono anni in cui si moltiplica l’offerta territoriale e cresce il turismo pendolare di massa. Non c’è più solo la gita al mare dei romani a Ostia, quando dalle periferie partivano gli autobus che scaricavano sull’arenile famiglie, frittate, fenomeni del calcio da spiaggia e teglie di lasagne. Negli stessi anni si ridimensiona la villeggiatura tradizionale: l’affitto della cabina per mesi, la famiglia che si trasferisce nella seconda casa. «Quel modello ha fatto per decenni la fortuna dei balneari e ha anche consentito loro di non dover assumere un’ottica più imprenditoriale» spiega Roberto Papagna, presidente di Federbalneari, che
sembra rendersi bene conto di come ci sia un salto di qualità da fare: «Qui c’erano 800 cabine anguste, ora sono 200, con doccia, e tutte le infrastrutture sono leggere e con materiali naturali», spiega parlando de L’onda a Ostia, lo stabilimento di sua proprietà che prendelentamente vita in una mattina di luglio.
Ora quel modello non c’è più e la crisi ha anche colpito quello cresciuto nella fase successiva: in Sardegna costi dei traghetti, la perdita di appeal del modello Billionaire (Briatore ha parlato di «peggior stagione di sempre»), hanno colpito duro. Confesercenti denuncia 4 milioni di presenze in meno tra il 2010 e il 2013. In questo caso infrastrutture, trasporti e costi sono un problema. Dove guardare allora?
Per rappresentare i ritardi prendiamo ancora Ostia, un esempio sui generis, certo: qui mancano alberghi degni di questo nome e non c’è la capacità di proporsi come una delle possibilità dei milioni che passano per Roma. I collegamenti con la capitale non sono il massimo, manca un percorso magari ciclabile che leghi la spiaggia, il sito di Ostia antica, la enorme pineta e la foce del Tevere: ambienti che avrebbero la possibilità di essere sfruttati meglio da un grande polo città d’arte come è Roma. A Barcellona e Marsiglia, per fare due esempi di città mediterranee europee, ci sono riusciti. Il litorale resta quello della domenica dei romani e dei Suv parcheggiati sulle dune dell’area protetta di Capocotta. Sulla crisi del modello balneare come lo conosciamo conviene anche Leoni, che parlando di come Rimini si stia ripensando, spiega: «II prodotto riminese è entrato in fase di maturità. Serve la capacità di offrire una nuova dimensione di vivere la vacanza, la concorrenza non si fa solo sui prezzi».
Nell’era dei voli low-cost, della crisi e dei tempi di lavoro frammentati che costringono a vacanze più corte, per fermare la tendenza al calo del turismo balneare, sarebbe necessario far crescere le presenze straniere e migliorare l’offerta per gli italiani. A partire dai prezzi, fra i più cari, considerando! concorrenti mediterranei. «E’ vero, il prodotto balneare italiano costa, ma se prendi un ombrellone greco o spagnolo a 10 euro al giorno e li confronti con uno italiano allo stesso prezzo, devi sapere che noi ci paghiamo il 22% di tasse, mentre Spagna e Grecia pagano il 4%. Anche gli alberghi pagano meno. Non mi pare abbia senso. Un conto è adeguare i costi delle concessioni, altro è renderci più competitivi con l’estero adeguando la tassazione» dice ancora il presidente di Federbalneari.
E che dire delle spiagge intasate di ombrelloni, sedie a sdraio, musica ad alto volume e acquagym? Forse pagano in alcuni luoghi e con certi segmenti di bagnanti, ma non rispondono
ai gusti del turista straniero di fascia medio-alta che viene in Italia a cercare l’Italia come si immagina che sia.
«Non parliamo nemmeno della nostra comunicazione all’estero: la riforma del Titolo V e il trasferimento delle competenze alle regioni, ha determinato ima frammentazione della comunicazione alle borse internazionali: non c’è l’Italia, ci sono 20 regioni». La diffusione delle competenze crea un altro paradosso: chi gestisce i bagni e sottoposto a grandi trafile burocratiche. «Essendo sul territorio del demanio, anche se voglio fare il campo da volley devo chiedere i permessi. E’ giusto controllare, ma se volessi demolire strutture pesanti e rinnovare con materiali meno invadenti cioè ridurre l’impatto dello stabilimento sul terreno passerei anni ad aspettare i permessi» spiega Muttareffi.
C’è poi un problema di modello di gestione delle spiagge. A volte troppi operatori assieme sono incapaci di creare un’offerta capace di dialogare con le forme prese del turismo di massa. Tradotto significa che se la Puglia, o meglio il Salente, è stata capace di crescere offrendo un prodotto completo (spiagge, cultura, cibo, manifestazioni estive di livello, oltre che un bei mare), attirando così un turismo internazionale europeo di fascia medio alta e disseminandolo sul territorio, ci sono realtà che devono lavorare su un altro tipo di prodotto e fascia. Per rispondere alle richieste dei tour operator servono
grandi spiagge, alberghi e organizzazione. Che sono almeno caratteristiche dell’Adriatico.
«Le lunghe spiagge sono perfette per un tipo specifico di offerta e di organizzazione dei servizi, la conformazione del territorio favorisce l’organizzazione, sia del singolo stabilimento che di consorzi come quello di Cervia e Cesenatico che abbiamo studiato nel nostro lavoro» spiega Mario Pelucchi che ha curato un rapporto di Nomisma sull’economia balneare voluto dalle cooperative di bagnini. «Queste caratteristiche determinano la possibilità di dotarsi di servizi integrati in comune che sarebbero troppo costosi perun singolo stabilimento : il wi-fi, il soccorso in mare, la pulizia dell’arenile e persino la lotta all’erosione delle coste». Servizi integrati e integrazione con gli alberghi funzionano quando c’è un’organizzazione centrale: «A Bibione il fatto di avere due soli concessionari consente di offrire convenzioni con gli alberghi uguali e generalizzate che facilitano la frequentazione degli stabilimenti da parte dei turisti. Un’organizzazione che rende più competitiva e capace di attrarre un certo tipo di turismo quella stazione balneare rispetto ad altre. L’interesse degli imprenditori locali che negli anni hanno investito nella nostra industria ha facilitato la modernizzazione dell’offerta» dice Paolo Sacilotto presidente Federbalneari Italia del Triveneto. Qui la caduta del muro di Berlino ha consentito di allungare la stagione: i bavaresi e gli austriaci in alta stagione quando i prezzi sono più alti, i paesi post-sovietici in bassa stagione. «Un tempo invece in bassa stagione si poteva sparare in spiaggia senza correre il rischio di colpire qualcuno» scherza Sacilotto. I flussi dell’est hanno contribuito alla tenuta delle spiagge venete e friulane, che assieme alla Puglia sono le uniche a non aver subito un calo delle presenze (Fedebalneari dice -25-30% nel 2013).
L’integrazione dei servizi nelle grandi località balneari che si vogliono attrezzare per competere con i rivali spagnoli o greci riguarda anche gli alberghi. «Una miriade di pensioni, per quanto di ottima qualità come quella della riviera romagnola, deve avere la capacità di consorziarsi per garantire risposte adeguate: se un grande tour operator ha bisogno di 400 posti letto per una settimana, deve avere il modo di trovarli con una telefonata. Oppure si rivolgerà altrove. Nelle grandi stazioni balneari i servizi di prenotazione e trasporto dovrebbero passare per forme di consorzio tra i piccoli» dice ancora Pelucchi.
Le Cinque Terre sono un (piccolo) esempio positivo. Nel parco della Liguria il turismo è cosa relativamente nuova: «Fino a metà anni "90 non c’erala strada asfaltata tra Riomaggiore e Monterosso e qui c’erano poche case di vacanza» spiega Luca Fontana, responsabile comunicazione del parco. Dal ‘99 l’istituzione del parco ha cambiato molte cose. I luoghi di mare tendono ad avere una stagione relativamente breve, mentre il parco aiuta a destagionalizzare i flussi. «Sentieri, spiaggia e vino significa avere una presenza spalmata su buona parte dell’anno e non dipendere solo dal bei tempo». L’intuizione di lavorare molto sull’internazionalizzazione dei flussi è cosa vecchia. E così ci sono gemellaggi con altri siti Unesco che portano studenti in periodi altrimenti morti e poi flussi di turisti giapponesi, cinesi e coreani. Oltre che, naturalmente, nord europei. «Si tratta di un tipo di turismo di fascia alta in cerca di alcune caratteristiche specifiche, un territorio, non solo una spiaggia». Una somiglianza con il Salente. Con l’accortezza di saperlo accogliere: la cartellonistica del parco è anche in cinese e giapponese e la card di servizi serve per accesso al parco, trasporti locali e wi-fi. L’anno scorso è stata venduta in 500 mila esemplari. Il successo del parco ha anche una ricaduta nei tenitori limitrofi: uno studio della Camera di commercio sostiene che attorno al parco girano 220 milioni di fatturato l’anno. E, vista la bassa ricettività dei paesi, anche a La Spezia e altrove alloggiano i turisti. «Con le autorità di La Spezia stiamo anche lavorando sul fronte dei croceristi, che possono fare questa come una delle escursioni a terra».
E qui veniamo all’aspetto pericoloso che vale per molte delle zone più belle delle coste italiane: un territorio fragile come le Cinque Terre, che funziona all’estero per la sua bellezza e per le sue caratteristiche uniche, rischia di snaturarsi a causa dell’eccesso di presenza turistica. Se le cantine che la gente vuole continuare a trovare si trasformassero tutte in affittacamere e il parco diventasse una specie di parco a tema del paese italiano, l’interesse calerebbe. Qui come altrove il filo tra capacità di attrarre turisti dall’estero e mantenere integro il territorio che è la ragione per cui questi dovrebbero venire è sottile. Ma è la sfida. L’alternativa è quella di lavorare senza sosta a costruire un’offerta che entri in competizione con certe parti della cementificata costa spagnola. E prepararsi ad accogliere torme di est europei e operai del Guandong per una versione postmoderna della spiaggia per tutti degli anni ‘50 e ‘60. Non è una bella prospettiva.