Ricardo Franco Levi, Corriere della Sera 22/8/2014, 22 agosto 2014
NESSUNO SCONTO ALL’ITALIA SUL DEBITO PUNTIAMO SUGLI INVESTIMENTI EUROPEI
Bene hanno fatto prima il ministro dell’Economia e poi lo stesso presidente del Consiglio a smentire l’esistenza di patti segreti con l’Europa sui conti italiani.
La notizia che anche la grande Germania non è immune dai colpi dell’avversa fortuna tanto da aver subito il calo del proprio prodotto interno lordo dello 0,2 per cento nel secondo trimestre dell’anno era stata accolta, anche nei dintorni di Palazzo Chigi, quasi con soddisfazione.
Dall’irridente iscrizione anche dei campioni tedeschi al club degli europei in crisi al racconto di una riservatissima intesa sulla riscrittura delle regole di gioco, cioè del governo dell’economia dei Paesi dell’eurozona, il passo era stato breve. Tanto breve, quanto precisi i dettagli della «trattativa segreta», i cui capisaldi avrebbero dovuto essere la frenata nel ritmo di aggiustamento dei conti pubblici (con il deficit strutturale, cioè calcolato al netto del ciclo economico, che avrebbe dovuto ridursi ogni anno non più dello 0,50 ma solo dello 0,25 per cento) e, come garanzia del nuovo corso, la nomina del ministro francese dell’Economia, Pierre Moscovici, a commissario europeo per gli Affari economici e finanziari.
Ora, che l’Europa sia in cattiva salute è un fatto. Dopo essere cresciuta di un misero 0,2 per cento nel primo trimestre, l’economia dei Paesi dell’area dell’euro ha registrato tra aprile e giugno un encefalogramma piatto e il Centre for european policy research di Londra valuta addirittura che non sia mai terminata la recessione iniziata nel terzo trimestre del 2011.
Detto questo, «calma e gesso». Come prima cosa, sarà bene non scordare che la Germania è il primo partner commerciale dell’Italia con un interscambio di oltre 100 miliardi di euro (equivalente alla somma degli scambi con Francia e Regno Unito) e che una larghissima parte della nostra struttura produttiva è ad essa legata da fondamentali relazioni e rapporti industriali, commerciali, finanziari, turistici. E chi si è affrettato a scambiare il vecchio detto «mal comune, mezzo gaudio» con un più nuovo e beffardo «mal comune, grande gaudio», dovrebbe riflettere sul fatto che l’affanno del più forte dei motori ai quali possiamo sperare di agganciare la nostra fragile economia è tutto meno che una benedizione.
In secondo luogo, conserviamo la capacità di distinguere. Il dato relativo alla mancata crescita tedesca tra aprile e giugno è quello che è, ma evitiamo azzardati paragoni con la situazione italiana. Dall’università di Harvard Jeffrey Frankel, già consigliere economico del presidente Bill Clinton, avverte che, se si adottassero i metodi di calcolo utilizzati negli Stati Uniti, l’Italia apparirebbe in una «medesima, orribile, unica recessione» a partire dalla crisi del 2008.
Infine, asteniamoci dal proiettare film a effetto come quello sulla «trattativa segreta». Basta seguire la stampa internazionale per sapere quanto intensi siano il dibattito e la riflessione sulla depressione dell’economia europea e sulle nuove politiche da mettere in campo per uscirne. Ma il «patto sulla flessibilità» tra governo italiano e Unione Europea e lo «sconto all’Italia» di cui si è letto in questi giorni (non sul Corriere ) sono fantasie. Così come lo è la nomina di Moscovici a commissario europeo per gli Affari economici, data la fermissima opposizione del più che potente ministro tedesco delle Finanze Wolfgang Schäuble ad affidare a un francese la sorveglianza sui bilanci europei.
Cosa dovremmo, allora, aspettarci, noi italiani, dalla nuova stagione europea che si sta per aprire con il lussemburghese Jean-Claude Juncker alla guida della Commissione europea? Non certo un cambio delle regole. E, quindi, quasi inevitabile, quando l’assenza di crescita avrà dispiegato i suoi ulteriori, negativi effetti, una riapertura nei nostri confronti della procedura per disavanzo eccessivo. Con qualche differenza, tuttavia, e non da poco rispetto al passato. A sorvegliare sui conti non sarebbe più la cosiddetta Troika composta da Commissione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale, ma, rispondendone al Parlamento di Strasburgo, la sola Commissione. Quanto al percorso di rientro, questo sarebbe definito in un protocollo di impegni con relative scadenze firmato tra la stessa Commissione e il governo italiano. Sapendo che, soprattutto dopo la deludente esperienza con la Francia di François Hollande, le riforme che saranno prese in considerazione saranno solo quelle realizzate e non quelle promesse.
Consapevoli che non potranno essere aggiustamenti marginali a fare la differenza, cosa potremmo e dovremmo, invece, chiedere al nuovo presidente della Commissione Juncker per cambiare il segno della politica economica europea? Una cosa sopra e prima di tutte: di mantenere fede all’impegno da lui preso di fronte al Parlamento europeo di un grande piano di investimenti da 300 miliardi di euro nei prossimi tre anni. Trecento miliardi veri, nuovi, non riciclati. Ecco, su questo e per questo il presidente del Consiglio Matteo Renzi dovrebbe assicurare a Juncker tutto il proprio appoggio e spendere tutto il proprio prestigio (e tutta la forza che gli deriva dal numero dei suoi europarlamentari).