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 2014  agosto 22 Venerdì calendario

IL “PEPE” DI COLOMBO CHE HA RESO PICCANTI LE CENE DEL SUD


«Ha effetti deplorevoli, perché è di natura molto calda, volatile e penetrante, e il suo impiego ripetuto è pregiudizievole alla salute dei corpi dei giovani e ancor più alla loro anima, poiché incita alla sensualità». Con una simile stroncatura, vergata dal gesuita Josè de Acosta nella sua Storia naturale e morale delle Indie Occidentali, il peperoncino non poteva che divenire un best seller internazionale, come oggi capita con certi romanzi erotici scalda-estate da leggere sotto l’ombrellone.
Per sapere come poi sia diventato la caratteristica di una cucina regionale, quella calabrese, bisogna far riferimento al rientro dal più famoso “viaggio avventura” di tutti i tempi. In Europa il peperoncino arrivò con Cristoforo Colombo, che aveva solcato il mare alla ricerca di una via più breve per arrivare alle Indie, ove ci si approvvigionava di quelle preziose spezie la cui richiesta in Europa era considerevolmente aumentata.
In Storia dei generi voluttuari, ecco come lo storico della cultura Wolfgang Schivelbusch descrive lo spirito del tempo tra le classi urbane più agiate: «La borghesia cittadina, arricchitasi, imita la nobiltà ostentando il proprio lusso. Sempre di più sono coloro che hanno voglia di vestiti sontuosi ed esotici e, ovviamente, di cibi aromatizzati; fu così che si annunciò l’autunno del Medioevo e il sorgere dell’età moderna. La salsa al pepe divenne ingrediente essenziale della cucina borghese».
Poiché l’offerta non bastava a colmare l’aumento della domanda, bisognava trovare nuove strade per approvvigionarsi di pepe. Non era proprio quello che cercava, ma ad Haiti Colombo riuscì a trovare qualcosa di meglio, come riferì in una relazione di viaggio del 1493: «Inoltre c’è molto “axi”, che è il loro pepe, di quello che vale più del pepe e tutta la gente non mangia senza di esso, che lo trova molto sano». La nota testardaggine di Colombo non si limitò al dare agli abitanti del nuovo mondo il nome di indiani, ossia abitanti dell’India, ma si confermò nel battezzare con il nome di pimiento, ossia pepe, il peperoncino: in entrambi i casi diede i nomi di quello che si aspettava di trovare. Creando non poca confusione nei secoli a venire.
Tuttavia la passione per le spezie tipica della cucina medioevale si affievolì con l’arrivo del Rinascimento. Il pepe nero rimase comunque una spezia di successo, ma la fama di cui godeva nelle cucine blasonate non si estese al peperoncino, che riscuoteva invece maggior fortuna fra i contadini e il popolino: lo si usava per insaporire pietanze povere, tristi e sciape, o per “disinfettare” sapori di carni o pesci poco freschi. Anche per questo motivo al peperoncino fu riservata scarsa attenzione nei più noti trattati gastronomici nazionali. Nel 1773 viene citato dal napoletano Vincenzo Corrado, in Il cuoco galante, quale ingrediente nella preparazione di salse; nel 1839, sempre a Napoli, anche Ippolito Cavalcanti duca di Buonvicino nel suo Cucina casarinola co la lengua napoletana, appendice alla seconda edizione di La Cucina Teorico Pratica, lo usa per insaporire la salsa di pomodori.
Ma è un secolo più tardi che il peperoncino ottiene infine un ruolo da protagonista. La sera dell’8 marzo 1931, Filippo Tommaso Marinetti inaugura la Taverna Santopalato a Torino; nel cosiddetto “antipasto intuitivo”, viene servito intero, ma all’interno cela bigliettini con motti adatti all’occasione, quali «Vivi pericolosamente».
È proprio in quegli anni che il peperoncino inizia a diventare simbolo di identità culturale e gastronomica della Calabria, dove la cucina, prevalentemente vegetale, è resa più vivace e saporita grazie a questa spezia dei poveri.
«Viaggiare in Calabria significa compiere un gran numero di andirivieni, come se si seguisse il capriccioso tracciato di un labirinto. (…) È certo la più strana delle nostre regioni», nota Guido Piovene nel suo Viaggio in Italia degli Anni Cinquanta: «Se Napoli la vince in scintillio dialettico, si riscontra in Calabria un più essenziale vigore speculativo; che poté manifestarsi in filosofi come il Campanella o il Telesio, e anche prendere le vie della visione mistica, come in Gioacchino da Fiore». Che non sia stato proprio il peperoncino ad agevolare le più stravaganti elucubrazioni? Di sicuro, il primo riferimento scritto in merito all’utilizzo del peperoncino di Calabria si trova proprio nel Medicinalium iuxta propria principia di Tommaso Campanella, il quale lo definisce “piper rubrum indicum” e ne racconta le doti benefiche per la salute.
Il matrimonio con la ‘nduja. Del resto, anche il nobile vicentino Piovene non restò indifferente a quel fascino per lui inedito: «Questi peperoni tritati, più forti della paprika, si insinuano dappertutto nella cucina calabrese e infuocano i cibi». E infatti una delle caratteristiche distintive del peperoncino di Calabria è la sua elevata piccantezza. Per quantificarne il grado c’è un’apposita scala di misurazione, la Scala di Scoville, basata sul contenuto di capsaicina. Quello calabrese è al settimo gradino della scala, con una gradazione che varia da 15.000 ai 30.000 Shu (Scoville Heat Units).
Il peperoncino di Calabria appartiene alla specie del Capsicum annuum, la più diffusa con molte varietà e centinaia di cultivar. Le specie calabresi sono l’abbreviatum, l’acuminatum, il fasciculatum e il caerasiferum, che tradotti in calabrese, ovvero con denominazioni popolari e dialettali, si chiamano rispettivamente: Naso di cane, Guglia o Spingoletta, Sigaretta, Ceraso o Cerasella o Cerasiello. Il Naso di cane ha forma conica, il Guglia o Spingoletta è allungato e leggermente ricurvo, il Sigaretta è dritto e sottile, mentre gli altri sono tondi e simili a ciliegie. Il peperoncino di Calabria fresco si caratterizza per il colore verde o rosso intenso, mentre essiccato è solo rosso intenso. La polpa fresca è compatta, omogenea, consistente e croccante.
La Calabria ha il singolare primato di regione con il maggior numero di specialità gastronomiche piccanti. Una su tutte: la celeberrima ’nduja, il salame morbido tipico dell’altopiano del Poro in provincia di Vibo Valentia. È fatta con la carne di scarto del maiale, quella più grassa, macinata e mescolata con peperoncino rosso: 250 grammi ogni chilo di carne. L’impasto riposa in madie di legno per qualche giorno, poi viene insaccato nell’orba (il budello cieco del maiale) e lasciato affumicare con essenze resinose e aromatiche. La ’nduja è pronta dopo un anno di stagionatura.
«I calabresi emigrati in America agli inizi del Novecento si portano in tasca un peperoncino come portafortuna e come ricordo della patria lontana. Quelli che restano in Calabria si affidano al peperoncino per riscaldare le loro pietanze senza sapore, per risolvere i loro problemi di salute, per sentirsi più forti, per superare le miserie di ogni giorno», scrive Enzo Monaco, fondatore e presidente dell’Accademia del Peperoncino. Dal 1994, l’Accademia – che ha sede a Diamante –, si propone di creare, approfondire e diffondere una vera cultura del peperoncino, al quale sono riconosciute virtù portentose. Oltre che afrodisiaco, sarebbe la spezia ideale per curare quasi tutti i mali: dall’alcolismo all’arteriosclerosi, dai reumatismi alle bronchiti, dalla depressione alle vene varicose, unitamente a molti altri acciacchi.

Pericolo rosso. Il peperoncino andrebbe gustato fresco, in modo che conservi intatti profumi e principi nutritivi; ma per averlo sempre a portata di mano si suole conservarlo in polvere. È principalmente così che viene commercializzato: la polvere rappresenta oltre il settanta per cento del mercato mondiale. Purtroppo la produzione di polvere di peperoncino implica problemi relativi alle tecniche di essiccazione e alle condizioni igienico sanitarie degli ambienti in cui è stoccata e lavorata. Spesso si determinano ossidazioni che alterano la pigmentazione dei peperoncini compromettendone il colore rosso vivo. E addio alle cinquanta sfumature di peperoncino. Così, per non deludere l’occhio del consumatore della spezia “a luci rosse”, si utilizzano coloranti pericolosi o non ammessi in commercio, come il famigerato Sudan rosso uno, classificato cancerogeno e genotossico dalla Iarc - International Agency for Research on Cancer, e impiegato abitualmente nella produzione di inchiostri o lucidi da scarpe.
Secondo il dossier di Coldiretti La crisi nel piatto degli italiani nel 2014, al primo posto della classifica dei cibi più contaminati c’è il peperoncino proveniente dal Vietnam, che si aggiudica il titolo di prodotto alimentare meno sicuro in vendita in Italia. Il 61,5 per cento dei campioni analizzati dall’Agenzia europea per la sicurezza alimentare è risultato irregolare per la presenza di residui chimici. E pensare che nel corso del 2013 ne abbiamo importati ben 273.800 chili, finiti nella preparazione dei nostri sughi tipici come l’arrabbiata, la diavola, la puttanesca o per l’olio piccante. L’Accademia del peperoncino assicura che gli artigiani italiani lavorano in maniera diversa, l’essicazione viene fatta con radiazioni solari o nei forni che permettono un migliore controllo della temperatura e di conseguenza una migliore conservazione della qualità delle bacche.
In Calabria, i peperoncini sono legati in trecce, poi vengono essiccati al sole e macinati mantenendo intatte le loro caratteristiche. La produzione avviene in aziende perlopiù familiari, di dimensioni medio-piccole, che tramandano la tradizione contadina. Ma se un chilogrammo di polvere prodotta in India costa al massimo 3 euro, quella prodotta in Italia non scende sotto ai 15. Al consumatore spetta l’arduo compito di orientarsi nella scelta, dal momento che purtroppo, con tutte le leggi che complicano le nostre vite, non esiste invece una norma che obblighi a riportare sull’etichetta del prodotto la tracciabilità della provenienza. Basta indicare il luogo del confezionamento, che come sappiamo è un’indicazione di pura forma e mai di sostanza. A nulla sono valsi sinora gli sforzi per ottenere il riconoscimento del marchio Peperoncino di Calabria IGT, nonostante il ministero delle Politiche agricole abbia espresso parere favorevole sin dal 2007.
Per farsi un’idea del fermento calabrese attorno a questo prodotto, bisognerebbe partecipare al Peperoncino Festival di Diamante, che quest’anno si svolgerà dal 10 al 14 settembre. In questa eccentrica sagra, giunta alla ventiduesima edizione, tutto, dalla gastronomia alla cultura, dagli incontri ai concorsi, è ispirato al concetto di “piccante” nel suo essere metafora di trasgressione, divertimento ed erotismo. Non a caso ha come testimonial quei due fustacchioni dei Bronzi di Riace. Volevate un’estate piccante, no?

9 - continua