Stefano Rodi, Sette 22/8/2014, 22 agosto 2014
COSÌ L’AUTO MINUTA È DIVENTATA UN MINI MITO
Ci sono automobili che non sono solo automobili. Alcune, pochissime, in circa 130 anni di storia, sono andate per conto loro e hanno raggiunto il mito; a volte viaggiano ancora sulle strade, ma portano anche altrove, dove può arrivare solo la passione. «Il fascino dell’automobile è questo: si è eroici e seduti», scriveva Anselmo Bucci, ne Il pittore volante. Su migliaia di modelli che hanno attraversato il pianeta, solo alcune regalano queste sensazioni. Non si parla di “supercar” guidate da qualche centinaio di miliardari, ma di “carsuper” che hanno trasportato il mondo: due cavalli, 500, Maggiolino, R4, per esempio. E, sicuramente, la Mini.
Che a muoverla non ci sia solo benzina, lo si capisce guidando una delle “classiche” per le strade di Londra, in direzione Kent, dove ai primi di agosto si è svolto il 36esimo Imm (International Mini meeting). Lo scorso anno è stato al Mugello, in Italia. Il primo si è svolto nel 1978 in Germania, a Mores.
3,05 metri di lunghezza. Se un’auto è in grado di suscitare sorrisi e sguardi ammirati dei pedoni e far suonare il clacson agli altri automobilisti, non come minaccia ma come saluto, significa che ha dentro qualcosa di speciale. La Mini ce l’ha e, in Inghilterra, gioca in casa. Uscì per la prima volta dagli stabilimenti di Longbridge e Cowley della British Motor Corporation nel 1959 e restò in produzione fino al 2000, anche se sotto il marchio di altre case automobilistiche: circa 5 milioni e mezzo di unità. La disegnò l’ingegnere Sir Alec Issigonis, nato a Smirne nel 1906 da padre inglese e madre tedesca. Non si era mai vista un’auto così: minuta (3,05 metri di lunghezza) ma per quattro persone, con motore anteriore, ruote piccolissime (10 pollici) e 80% dello spazio dedicato agli occupanti. Ma se queste erano le forme, la “sostanza” stava al passo, tanto da regalare uno stile di guida che venne presto battezzato come “go-kart feeling”. Sensazioni che vennero esaltate due anni più tardi, quando venne lanciata la Mini Cooper, ovvero la versione sportiva firmata da John Cooper (titolare dell’omonimo team di Formula 1). L’elaborazione consisteva nell’incremento di cilindrata da 848 a 997 cm³, nell’adozione di 2 carburatori tipo SU da 1.25, di freni anteriori a disco e di un assetto rivisto. L’aumento di potenza a 55 Cv, abbinato alle straordinarie doti stradali della Mini, creava le condizioni per un miracolo che si realizzò nel 1964 sulle strade del Rally di Montecarlo e lasciò a bocca aperta il mondo delle corse.
Tutta questa storia che, appunto, non è solo quella di un’automobile, rivive ancora oggi: all’Imm, nel Kent, sono arrivate circa 4mila e 500 persone da 40 Paesi, a bordo di quasi 3mila Mini. Tende, sacchi a pelo, stand con ogni genere di pezzi di ricambio originali e, soprattutto, una rassegna di auto che lascia basiti quelli che non fanno parte di questo mondo. Ce ne sono alcune, poche in realtà, in mezzo a questo Minimondo, che sono state conservate identiche a come uscirono dalla fabbrica, alle quali non è stata cambiata neanche una vite oppure, se proprio la si doveva cambiare, se ne è trovata una originale da sostituire. Tra le altre, e sono migliaia, non se ne vede una uguale all’altra. Il successo di questa macchina, infatti, oltre che al genio di Issigonis, sta certamente nella fantasia dei suoi proprietari. Un fenomeno che, una volta compreso, venne ovviamente cavalcato dalla casa produttrice che mise in commercio una quantità pressoché infinita di accessori per le varie personalizzazioni. Fenomeno che è rimasto nell’aria, se è vero che la versione moderna di quella “classica”, prodotta dal 2001 dalla Bmw, prevede una quantità di versioni e allestimenti che non finisce più.
La bibbia del guidatore. Nel Kent si cammina con la sensazione di attraversare un raduno rock, dove suonano i motori e la passione di chi li accende. C’è un linguaggio comune, quasi un gergo, fatto di pezzi di ricambio introvabili, paraurti, manopole, cruscotti, sedili, volanti. Accelerazioni e frenate. È un caos che dura tre giorni, ma è ordinato da disposizioni ferree. Sono 25, distribuite all’ingresso. Numero 1: «Per favore, divertiti, rispetta le regole e gli altri». Numero 3: «Non eccedere nel bere e ricordati sempre di chi c’è attorno a te». Numero 4: «La musica è proibita dopo le 11 di sera». Numero 7: «Rispetta sempre la velocità di spostamento all’interno del campo che è di 5 miglia all’ora». Numero 25: «Speriamo che comprendiate come queste semplici regole siano pensate per il piacere di tutti quelli che partecipano all’Imm». La passione, come i motori, non deve andare fuori giri. «È la prima volta che partecipo», spiega Patrick, un francese che, da come le guarda, non si capisce se ama più la sua Mini azzurro pastello o la fidanzata bionda. «Ne ho trovata una uguale, identica, totalmente originale; stesso mese e stesso anno di immatricolazione, stesso colore: una gemella. Pazzesco!». Parlava dell’auto. Due inglesi, poco lontano, meccanici per diletto, hanno trasformato la loro macchina in un dragster: dal baule dietro escono due tubi di scappamento che sembrano reattori. Fortunatamente è spenta. Nell’abitacolo c’è solo il sedile del pilota e, al suo fianco, è incastonato un estintore che non lascia ben sperare. E via così: più avanti c’è un modello tutto in legno, ribassato: gli è stato segato via un buon trenta centimetri. Poi ci sono varie versione a due posti: invece che in altezza è stata segata in lunghezza, «eppur si muove». Qui in mezzo ci sono meccanici e carrozzieri che potrebbero lavorare in qualsiasi officina del mondo: con mani e attrezzi sanno fare tutto. Ma la loro competenza si è concentrata solo su questa piccola grande auto per farla vivere e rivivere nelle più svariate versioni: ce n’è anche una rialzata sul telaio, su ruote da “monster”. Tutto è lecito, il sacro si mischia col profano: l’importante è che sotto i riflettori resti il culto di questa vettura che ha riscritto la storia dell’automobile. E, secondo i proprietari, non solo quella visto che ne passa una con su scritto: «And on the 7th day God created Mini» (e il 7° giorno Dio creò la Mini). Più terreno l’omaggio tributato da un italiano su una tendina parasole: «O sole Mini».
Curve in trance. Questa Woodstock sulle ruote ha i suoi idoli, come è giusto che sia. Uno svetta su tutti e, quando cammina su questi prati del Kent trasformati in parcheggio di opere d’arte, tutti si girano. La maggior parte in rispettoso silenzio, i più coraggiosi lo avvicinano per stringergli la mano. Lui è spiritoso e simpatico; si ferma volentieri a chiacchierare e dispensa pacche sulle spalle. Il suo nome è Patrick “Paddy” Hopkirk, è irlandese e ha 80 anni. Cinquant’anni fa, il 21 gennaio 1964 metteva a segno un colpo da maestro, un cerchio di Giotto sui tornanti innevati più famosi del mondo, quelli del Rally di Montecarlo: con il navigatore e co-pilota Henry Liddon, altra star del raduno nel Kent, mise il musetto della sua Mini Cooper S, che aveva 95 Cv di potenza, davanti a bolidi come Mercedes Benz 300 SE e Ford Falcon V8, i cui propulsori a sei cilindri avevano potenze tre o quattro volte superiori. Vittoria incredibile, la gente non riusciva a crederci: Davide, da solo, che sconfigge tanti Golia. Hopkirk è passato alla storia per “la notte dei lunghi coltelli” (chiamata così per i potenti fasci di luce dei fari), l’ultima di gara, nella quale doveva difendere un vantaggio di 17 secondi sulla Ford Falcon di Bo Ljungfeldt. Il suo racconto, per chi l’ha sentito, valeva il viaggio nel Kent. «Sebbene la Mini fosse soltanto una berlina familiare, tecnicamente aveva tanti vantaggi: la sua trazione anteriore e il motore montato trasversalmente davano una grande tenuta di strada soprattutto su neve e ghiaccio. Quell’anno aveva nevicato moltissimo, c’erano dei muri bianchi che stringevano le strade e quindi il fatto di essere molto più piccoli degli altri ci dava un’agilità che compensava la minor potenza. Poi la nostra macchina andava particolarmente bene in discesa: quello che potevamo perdere in salita lo recuperavamo lì». L’irlandese venne giù dal Col de Turini come con un bob, invece era una Mini targata 33 EJB che bucava la notte come un proiettile fosforescente, guidato dai comandi secchi urlati da Henry Liddon. Hopkirk eseguiva: pendoli, sterzate e controsterzate, infilando le curve in trance e inseguendo la luce dei fari, ignorando muri, muretti e strapiombi, con i piedi che ballavano il tip tap sui pedali e la mano sinistra che tirava botte da orbi alla leva del cambio. Così si diventa idoli di un mondo di appassionati e lo si resta fino a 80 anni. «Quell’exploit sorprese il mondo e tutti noi. Fu molto bello». Quella macchina aveva realizzato un sogno che l’uomo insegue da sempre: il piccolo che sconfigge i grandi, lo stile che batte la forza. E fu amata per sempre, in tutto il mondo. «Ricevetti un telegramma dei Beatles», ricorda Hopkirk, «che fu poi seguito da una fotografia autografata da tutti e quattro che diceva: “Ormai sei uno di noi, Paddy”». Non finì lì: la vittoria a Montecarlo sì ripeté nel 1965 e nel 1967, senza contare quella del 1966 quando tre Mini chiusero ai primi tre posti, ma furono poi squalificate dai commissari di gara per “fari non regolamentari”.
La nuova generazione. Le Mini, comunque, non vivono di ricordi. Il loro glorioso passato è una specie di turbo che le spinge anche nel presente: la nuova generazione, sotto il marchio della Bmw, il cui sviluppo iniziò nel 1995, vide la luce nel 2001. E da allora non ha mai più fermato la sua corsa, con modelli e configurazioni che non dimenticano mai chi c’è stato alle loro spalle. Anders Warning, altro idolo dell’Imm, è il giovane danese che ha guidato tutto il design della nuova Mini, cresciuta con misure decisamente più abbondanti rispetto a quelle della “mamma”. «Per parecchio tempo abbiamo provato a lavorare a un modello che riprendesse le esatte dimensioni della classica, ma le moderne normative di sicurezza l’avevano reso troppo complesso». L’idea di riprovarci, però, non è stata abbandonata. Del resto, dimenticarsi della vecchia Mini, è impossibile.