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 2014  agosto 22 Venerdì calendario

ALTRO GIRO ALTRA CORSA

«Non è stato facile, perché ogni giorno ci sono state due corse: la prima era quel la in bicicletta; la seconda quando finiva la tappa e cominciavano le domande dei giornalisti». Vincenzo Nibali riavvolge il nastro di un’impresa che gli ha permesso di entrare nella Hall o/Fame di chi ha vinto le tre grandi corse a tappe del ciclismo. Perché al Tour de France di quest’anno si somma la Vuelta di Spagna del 2012 e il Giro d’Italia della passata stagione. Nibali aggiunge il suo nome a quelli degli “immortali”: Jacques Anquetil, Eddy Merckx, Felice Gimondi, Bernard Hinault e Alberto Contador. «Io, con tutti quelli lì, mi troverei a disagio ovunque, perché loro sono il ciclismo», dice.
Lui, “Enzuccio”, resta il ragazzine di Messina che fu messo m bicicletta da papa Salvatore quando aveva nove anni, «per fare il modo che mi sfogassi pedalando, visto che ero piuttosto... esuberante», spiega. Vent’anni dopo, Nibali è diventato il corridore più pagato al mondo, visto che fino al 2016 la formazione kazaka dell’Astana gli corrisponderà quattro milioni di euro a stagione, Ma Vincenzo non ha mai pensato di vincere per i soldi: «Io amo la bicicletta perché mi esprimo grazie a lei», racconta. «Ho lasciato la Sicilia quando avevo quasi 16 anni, salutando i miei genitori per spostarmi a Mastromarco, nel Pistoiese, perché sentivo che là avrei potuto continuare il mio sogno». E aggiunge: «Conosco un solo modo di fare ciclismo. E fatto di passione, sacrificio e allenamento. Quando andai al Tour per la prima volta, era il 2008, vedevo tanti italiani che mi scatta vano in faccia mentre io non sapevo replicare perché ero già al massimo. Fui preso da un inizio di disperazione, mi venne perfino voglia di ritirarmi, ma il mio diretto re sportivo mi convinse a continuare. Mi disse: “Un giorno capirai cosa ti sta accadendo oggi”».
Vincenzo non lo dice, ma quello era il tempo del ciclismo a due velocità: alcuni pedalavano sprigionando la forza accumulata negli allenamenti, altri vi aggiungevano benzina con l’Epo, la “bomba” sintetica che arricchiva il sangue e ti faceva sentire un Dio in bicicletta. «Io volevo vincere restando quello che ero: un ragazzo siciliano che non avrebbe mai tradito gli insegnamenti dei suoi genitori».
Papa Salvatore, guardando suo figlio sul gradino più alto del podio, sugli Champs Elysées di Parigi, alla fine dell’Inno di Mameli ci ha detto una frase in cui è racchiusa tutta la filosofia di famiglia: «A casa nostra, fin da quando Vincenzo era giovanissimo, il doping non è mai entrato». Eppure nel corso delle tre settimane della Grande Boucle, non è trascorso un solo giorno senza che Vincenzo, con la maglia gialla addosso, non abbia dovuto rispondere a domande provocatorie, alcune cattive, come se portare il simbolo del primato sulle spalle significasse automaticamente essere connivente con gli illeciti sportivi.
«Sono qui per dimostra re che si può vincere anche da puliti. Anzi, se alla fine resterò davanti a tutti sarà proprio perché il ciclismo è cambiato davvero». A chi gli chiedeva cosa ci facesse lui, paladino del “no do ping”, in una squadra come l’Astana che troppe volte in passato era stata coinvolta in illeciti sportivi il messinese ha replicato ogni volta con grande mestiere e serenità: «C’è stata una profonda ristrutturazione all’interno del team. Sono arrivati molti giovani e gli errori commessi in passato sono serviti a tutti per voltare drasticamente pagina».
E poi: «Mi hanno detto che nel corso dell’ultima settimana di Tour il mio nome era su tutti i giornali e che perfino i tg aprivano il notiziario con le mie vitto rie», racconta. «Per fortuna avevo le giornate talmente piene da non avere nemmeno il tempo per raccontarmi che cosa stesse effettivamente accadendo. Finché mi è arrivato un invito di Matteo Renzi, dico, il Capo del Governo. E ho saputo che anche il Presidente Giorgio Napolitano ha parlato di me. E allora ho capito. O meglio, ho cominciato a capire...».
In abiti attillati, su un set fotografico improvvisato all’esterno di un hotel di Eindhoven, Vincenzo sembra sottile come un fachiro. «Sto molto attento al peso», spiega. «Sono alto più di uno e 80, ma per tutto il Tour ho evitato di superare i 63 chili. Mi conosco alla perfezione anche se non sono schiavo della scienza applicata allo sport e ogni tanto preferisco fare di testa mia e so che, in salita, anche pochi etti in più diventano una zavorra. Mi peso spesso, lo faccio regolarmente a ogni fine tappa, e se vedo che ho perso più di un chilo rispetto alla partenza me la prendo con me stesso: significa che mi sono alimentato male. Non si deve mai correre il rischio di andare in crisi di fame. A quel punto sei già fregato ed è tardi per rimediare».
A chi gli domanda se ha vinto il Tour perché prima Froome e poi Contador i suoi principali concorrenti sono stati tagliati fuori da cadute, Nibali non risponderà mai in modo antipatico, come era solito fare invece uno come Lance Armstrong.
Alle considerazioni personali, Vincenzo Nibali anteporrà sempre il profondo rispetto che prova per gli avversari «Credo che con loro due in gruppo fino alla fine ci sarebbe stata una bellissima sfida a tre, ma vorrei anche sottolineare che Froome è caduto nel tentativo di recuperare terreno perduto, mentre Contador è stato estromesso da un altro incidente quando aveva già oltre due minuti e mezzo di ritardo dal sottoscritto. Non dico che avrei vinto io in ogni caso, ma sicuramente per loro sarebbe stata molto dura: sono andato in crescendo sino alla fine, mentre la loro condizione era molto più avanti della mia già al Dauphiné Libere, la corsa a tappe di preparazione al Tour, per cui era quasi inevitabile che avrebbero concluso la Grande Boucle in leggera flessione. Il mio desiderio, comunque, è che ci si possa confrontare l’anno prossimo, noi tre più Quintana, il vincitore del Giro di quest’anno. E anche Wiggins, il campione olimpico che resta un grandissimo avversario anche se mi pare di capire dalle sue dichiarazioni che voglia tornare all’attività su pista».
Nibali non è solo il campione che pedala davanti a tutti. E il ragazzo rispettoso che stupisce chiunque per la sua disponibilità al termine di ogni tappa, pronto a rispondere a tutte le tv, indistintamente. I giornalisti abituati all’arroganza di Armstrong, alla durezza di Wiggins e ai bodyguard che proteggevano Froome si chiedevano da dove scaturisse tanto garbo nei modi di questo ragazzo.
«Da quello che ho imparato, dall’educazione che ho ricevuto e che non ho mai sconfessato», dice lui. «Potrà sembrare una frase fatta, ma io resto quello di una volta, quel giovane ingenuo che amava pedalare per le strade di Messina con gli amici. Ed è questo uno dei desideri che più di molti altri vorrei esaudire, anche ora che tutti mi cercano: mettermi di nuovo in sella con loro e fare un giro per il solo piacere di stare insieme».
Tutto il mondo di Nibali assomiglia a Nibali: papa Salvatore, mamma Giovanna, Carlo e Bruna Franceschi, ossia i genitori che lo hanno adottato quando si trasferì nel Pistoiese a quasi 16 anni; la moglie Rachele, la figlioletta Emma. Campione di ciclismo e di consapevolezza. Una storia talmente semplice e meravigliosa da sembrare quasi rétro, La parte forse più ricca di un’Italia sempre più povera.