Stefano Lepri, La Stampa 22/8/2014, 22 agosto 2014
IL MONDO A CACCIA DI RICETTE NUOVE PER SCONGIURARE L’INCUBO DEFLAZIONE
Non tutti i pantani dove si sprofonda sono sabbie mobili. Per fortuna, le sabbie mobili sono un fenomeno raro; ma una volta che ci si è dentro è difficilissimo uscirne fuori. Cosicché, è bene stare in guardia quando si comincia ad affondare. Lo stesso accade con la deflazione, ossia il calo dei prezzi: se si trasforma in spirale deflazionistica, sono guai grossi.
In Italia da un anno il costo della vita è all’incirca fermo: in alcuni mesi, come luglio e maggio, i prezzi al consumo sono andati giù, in altri, come aprile e giugno, su. Secondo l’indice armonizzato europeo, negli ultimi 12 mesi la loro variazione netta è zero. Non è ancora deflazione come in Spagna (-0,4% annuo), Portogallo (-0,7%) Grecia (-0,8%), eppure ci si preoccupa. Quando si consolida l’aspettativa che i prezzi scenderanno, le famiglie rinviano gli acquisti sperando di spendere meno domani; le imprese sono scoraggiate a produrre, perché temono di dover vendere a un prezzo più basso, domani, merci fabbricate con i costi di oggi. Si risparmia molto e l’attività economica cala. Questa è la tanto temuta spirale deflazionistica.
Accadde, soprattutto, durante la grande crisi degli anni ’30. I regimi dittatoriali usarono modi spicci: Mussolini ribassò i salari, allo scopo di modificare le convenienze delle imprese; ma non funzionò gran che, l’Italia andò peggio degli altri Paesi. In tempi recenti, una deflazione prolungata l’ha conosciuta soltanto il Giappone, con alterne vicende da una ventina d’anni. Nella memoria degli italiani di oggi restano incisi casomai fenomeni opposti, come i record di inflazione degli anni ’70, o i timori del 2002 quando si passò dalla lira all’euro. Sembra assurdo preoccuparsi che i prezzi abbiano smesso di aumentare quando perlopiù ci si duole degli stipendi che non bastano o del lavoro che non si trova.
Tuttavia, è diventata proprio la deflazione l’assillo principale in molti Paesi avanzati. E non si dica che è colpa dell’euro: certo il calo dei prezzi è più pronunciato nei Paesi euro che hanno fatto sacrifici, le scelte della Bce sono discutibili, ma il fenomeno appare anche altrove. Svezia e Polonia con valute a cambio libero hanno prezzi quasi fermi. Nelle sabbie mobili ancora non ci siamo. In Italia, secondo l’Istat, l’«inflazione di fondo» (al netto dei prezzi dell’energia, che si muovono per cause esterne, e degli alimentari, che vanno con le stagioni) era in luglio dello 0,6% negli ultimi 12 mesi. Poca inflazione, non deflazione. Eppure effetti simili alla deflazione li vediamo: famiglie e imprese spendono meno di quanto potrebbero. In tutto il mondo si discute su quanto sia vicino il pericolo. Secondo alcuni - sempre più numerosi - stiamo camminando troppo sul bordo dell’infida palude. Altri, perlopiù tedeschi, resistono: allontanandocene entreremmo in un bosco dove si nascondono pericoli maggiori (nuove bolle speculative, instabilità finanziaria, inflazione).
Per giunta, se la deflazione è il pericolo numero uno - ovvero, per rimettere in moto l’economia occorre una aspettativa di moderato rialzo dei prezzi - un rimedio sicuro non esiste. Aumentare la spesa pubblica in deficit funzionò negli anni ’30, oggi è reso rischioso dall’alto debito accumulato; comunque il Giappone lo fa da anni e non basta. L’espansione monetaria da parte delle banche centrali («quantitative easing» ovvero acquisti massicci di titoli) ha funzionato abbastanza negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Forse ha fatto male la Bce a non seguire, ma nell’area euro i tassi sui titoli pubblici sono già bassissimi (ieri i Btp italiani a 10 anni erano al 2,6%), dunque non sarebbe chiaro l’obiettivo. Forse serve un misto dei due. Oppure qualcuno ha un’idea nuova?