Andrea Sorrentino, la Repubblica 22/8/2014, 22 agosto 2014
ANFIELD, ULTIMA TAPPA PER IL POP PLAYER CHE SEGNA SUI SOCIAL
Una vita da pop player. Il problema di Mario Balotelli è che già a 24 anni, più che un bravissimo calciatore, è diventato un’icona dei nostri tempi, indipendentemente dal rendimento in campo. Icona di quello sbrago post-adolescenziale che infesta i comportamenti di un sacco di gente e trova nella rete uno dei suoi megafoni prediletti. Lui è il simbolo, ora sorridente ora digrignante, di una confusa ribellione a un sistema, senza però ben definire i contorni della ribellione e del sistema, tanto l’obiettivo sembra solo quello di mandare un po’ tutto in vacca perché tanto siamo giovani e belli e muscolosi e piacciamo alle sbarbine e possiamo fare quello che ci pare, invidiosi quelli che ci criticano. E per una simile ideologia, chiamiamola così, seguaci ne trovi a mucchi, anzi a milioni. Così ormai la figura di Mario Balotelli calciatore si è stinta in quella del personaggio, e pare, si mormora, che a lui vada benissimo così: gli piace finire nelle tempeste mediatiche che quasi sempre lui stesso provoca, perché le tempeste creano per prima cosa divertimento, infine alimentano la celebrità, e la celebrità si scrive con parecchi zeri quando vai a discutere i contratti e hai alle spalle qualche milione di follower. Madame Pompadour aveva capito tutto, e non aveva neppure twitter sotto mano.
Del resto ormai Mario va dove lo porta Raiola, Mino Raiola, traghettatore di anime e di ingaggi. Con Mino vai sul sicuro, si sa: sali, ti affidi alla sua pagaia e qualcosa accadrà, magari non in campo ma di sicuro sulle scrivanie dei presidenti, dove gli stipendi lievitano se a trattarli è uno che ci sa fare davvero, e Mino in quello è un demonio. Per questo il primo vero gesto da giocatore adulto, e di ribellione contro il sistema, Mario Balotelli lo compie nel marzo 2010, con l’Inter in corsa per ogni cosa e lui che si rifiuta di partecipare a una trasferta a Catania, e mentre la squadra è altrove lui prende Raiola come manager, uno che all’Inter era visto come Belzebù. Da lì inizia la giostra. Fugge da Milano perché dopo quella maglietta gettata in terra al termine di Inter-Barcellona 3-1 (e dopo che almeno quattro compagni lo picchiano negli spogliatoi, più Mourinho qualche giorno dopo alla Pinetina) non può rimanere. Mino lo porta a Manchester dove c’è Mancini che è stato il suo padre
calcistico. Dura due anni e qualche mese perché neppure il padre lo riconosce più, e lui poi ha voglia di Italia, di Milan che era la sua squadra del cuore, e infatti ci arriva, e intanto lo stipendio cresce. Ma l’idillio dura quattro mesi, quelli che servono per arpionare una qualificazione alla Champions coi suoi rigori, ma il secondo anno, al solito, è quello dei nodi che vengono al pettine. Al Milan oggi si rilassano, perché non avranno più a che fare con la scia infernale di sigarette, di foto con fucili o pistole o maialini o creste, di Ferrari che sgommano nella notte, di scazzottate in discoteca, di allenamenti svogliati, di movimenti in campo troppo primitivi per un attaccante a questi livelli, di rispostacce e di cuffione nelle orecchie per non sentire il rumore del mondo, insomma di tutta la Balotelleide che fa parte del pacco dono, e che ora si sciropperanno a Liverpool, ma pagandolo una tombola, beninteso, perché Mino vigila. Perdiamo l’unico giocatore davvero mediatico che abbiamo, dicono ora al Milan, e in effetti è un danno per il marketing, certo. Perdono anche un ottimo ragazzo (non cattivo, giammai, anzi sensibile e profondamente buono) ma troppo influenzabile da amici che non lo fanno crescere, perdono un grande atleta ma un calciatore discutibile e un professionista imperfetto, il che di questi tempi proprio non si può. Quando Mario parla di sé come calciatore, ha sempre riferimenti altissimi, più giù di Cristiano Ronaldo e Messi non scende, ma la sua storia recente parla d’altro, e parla di fallimenti tecnici, nel Milan e in Nazionale, e di comportamenti che Cristiano o Messi non si permetterebbero mai, perché loro sono top player e sanno che non si può scherzare troppo. Intanto intorno a Mario si fa il vuoto, un vuoto agghiacciante a ben guardare, perché non si erano mai visti, per dire, due come Buffon e De Rossi saltar fuori da uno spogliatoio a Mondiale straperso (per colpa di tutti) per dire, non richiesti, che in pratica la colpa era tutta di Balotelli. È come se un certo calcio, il grande calcio, rigettasse prima ancora l’atleta, mica il personaggio. Brutto affare. Chissà come ripartirà ora la sua corsa in Nazionale col nuovo ct, che ieri, appreso del trasferimento, l’ha aggiunto alla lista degli italiani all’estero da allertare, ma è incerto se chiamarlo subito: Mario potrebbe giocare solo l’amichevole con l’Olanda e non la gara ufficiale in Norvegia, perché è squalificato, poi chissà lo spogliatoio che ne pensa. Affari di Conte, comunque. Gestire un pop player non dev’essere facile, infatti finora non c’è riuscito nessuno. Chissà se a Liverpool, dove col pop hanno una discreta confidenza, troveranno un antidoto. Bookmakers scatenati, e per ora pessimisti.