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 2014  agosto 22 Venerdì calendario

«IO L’HO TENUTO MA NESSUNO PUO’ DECIDERE AL POSTO DI UNA MADRE

Rita Viotti dice che in fondo deve ringraziare Franco Basaglia. Lo psichiatra che “liberò” i matti. «Sono nata in Friuli, ad Almanova, e cresciuta negli anni in cui il manicomio di Gorizia apriva le porte, e la parola d’ordine era inclusione, gli ex degenti vivevano tra noi, diversità e normalità intrecciate, nella mia classe c’era una bimba down e nessuno si sognava di discriminarla, era naturale crescere insieme». Così, chissà, forse grazie anche a quelle memorie, quando Rita, incinta di due mesi, scopre che Francesco, il suo primo figlio, ha la sindrome di Down, il pensiero dell’aborto non la sfiora. «Sono laica, difendo la legge 194, e non c’è in me alcuna barriera religiosa: semplicemente ho sentito e capito che potevo accogliere e sostenere mio figlio, pur con tutta la sua condizione speciale».
Rita Viotti, il professor Dawkins definisce “immorale” mettere al mondo un bambino down.
«Non sono una di quelle madri che definisce la sindrome un “dono” o che nega la fatica e spesso anche il dolore di far nascere e crescere un figlio così. Ma nessuno può giudicare queste scelte e soprattutto definirle immorali. E cosa sarebbe morale allora, selezionare i bambini?».
Però lei difende la libertà di scelta della donna
«Certamente. Ed è una libertà che oggi ci è data proprio dalla scienza. Quello che contesto è il giudizio».
Ma lei non ha avuto paura di mettere al mondo un bambino “diverso”, con tutte le difficoltà della sindrome di Down?
«Avevo 36 anni, e Francesco era il mio primo figlio. Potete immaginare le attese e le speranze, sia mie che di mio marito. Ci hanno detto che aveva la sindrome dopo il test della translucenza nucale. Tutto è cambiato e non è stato facile. Ma qui mi è venuta in soccorso la mia infanzia, l’essere cresciuta in un mondo con tante differenze, l’aver sempre considerato la normalità e la disabilità come parti della stessa vita. E abbiamo accettato Francesco».
E quando è nato?
«Dolore e gioia insieme. Lo adoravo ma mi rendevo conto delle differenze. Gli altri bimbi stavano seduti e il mio no, gli altri camminavano e il mio non ancora. Mi faceva male... Però tenacemente andavo al parco tutti i giorni, lo allattavo, lui aveva dei magnifici capelli rossi, tutti si avvicinavano ad accarezzarlo, e io li scrutavo, cercavo di capire se vedevano la differenza. A volte volevo gridarlo: guardate che è Down».
E poi?
«A sedici mesi è andato al nido, e poi alla scuola materna. La vita ha acquistato un ritmo normale. E le sue insegnanti di quegli anni sono state stupende. Ma è stato il lavoro a darmi una spinta in avanti».
Lei è impiegata all’università Bocconi di Milano.
«Sì, al centro Comunicazione. Un giorno la responsabile mi ha chiamato: “Noi qui abbiamo davvero bisogno di te, come possiamo aiutarti?”. Ho chiesto ed avuto il telelavoro, e così potevo seguire Francesco senza rinunciare alla mia professione».
Oggi Francesco ha un fratello. Com’è la vostra vita familiare?
«Uguale a quella di tante altre famiglie, mi verrebbe da dire, ma non è così. Per Francesco ogni gesto è più lento, più difficile. Allacciarsi le scarpe, lavarsi i denti, trovare i vestiti. Ma è la nostra normalità».
E la scuola?
«A volte penso che nel 1978, quando andavo alle scuole elementari in Friuli, l’inclusione era assai più concreta di oggi. Che senso ha mettere un bambino Down in fondo alla classe, pensando che non può farcela a seguire la lezione? E quanto è difficile spiegare che anche Francesco deve fare il lavoro di gruppo, e se si va un po’ più lenti con il programma non succede nulla».
Nonostante il suo tenace ottimismo lei descrive discriminazioni e inefficienze.
«Ci sono, è inutile negarlo. Dopo il nido e la materna, l’impatto con le elementari è stato duro. Però Francesco è felicissimo di andare a scuola, ed è pieno di amici».
Lei fa parte dell’associazione Coordown. Quanto conta l’essere insieme?
«Moltissimo. Sostegno, confronto, impegno, solidarietà».
Molte madri di bambini con handicap ammettono di avere una rabbia profonda dentro.
«No, la rabbia non l’ho mai provata. Ma l’amarezza di fronte alle sue fatiche, sì».
Oggi cosa direbbe ad una donna che scopre di aspettare un bambino Down?
«Le direi di informarsi sulla sindrome, di valutare le proprie forze e di sentirsi libera. Però le direi di tenerlo. Questa è stata la mia scelta. E ho dei figli meravigliosi».