Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  agosto 22 Venerdì calendario

ADESSO L’AMERICA HA PAURA: «CI ASPETTANO ALTRI ATTACCHI»

Un blitz fallito, e poteva finire in una catastrofe ben peggiore. La decisione controversa di non pagare riscatti per gli ostaggi. Il reclutamento di una nuova leva di jihadisti fra di noi, in America e in tutto l’Occidente. «E ora ci aspettiamo nuovi attacchi: questo è il più sofisticato network terroristico che l’America ha mai affrontato», avverte il segretario alla Difesa, Chuck Hagel.
Per Barack Obama la tragedia di James Foley, il giornalista americano decapitato, è un brutale richiamo ai pericoli che si condensano sotto una sola sigla: Is, l’acronimo che sta per Islamic State. Is, l’armata jihadista nata da Al Qaeda, ma così feroce da essere sconfessata perfino dai suoi padri. Is che punta al Grande Califfato in Medio Oriente, già controlla pezzi di territorio siriano e iracheno. E ora annuncia: dopo Foley altri ostaggi americani faranno la stessa fine, se non cessano i bombardamenti Usa. Ci sono almeno tre americani tuttora in mano a Is, lo spettacolo atroce della decapitazione filmata di Foley può ripetersi a breve. «La Casa Bianca si sente accusata di non avere fatto abbastanza», secondo il New York Times è per questo che ha rotto il silenzio sul blitz fallito. Sì, Obama diede l’ordine di una Mission Impossible. Un commando americano, 24 uomini della Delta Force, su aerei ed elicotteri, all’inizio dell’estate fece un incursione notturna in una raffineria petrolifera nel nord della Siria, controllata dai ribelli di Is. L’obiettivo era salvare Foley. E anche altri ostaggi che in quel momento erano detenuti nello stesso luogo. Una «operazione molto complicata», secondo la descrizione del Pentagono. E la prima incursione sul territorio siriano ammessa dall’Amministrazione Obama. «Ma quando siamo arrivati sul posto era troppo tardi. Forse solo per poche ore, ma gli ostaggi non erano più lì». Missione ad altissimo
rischio: uno dei militari Usa è stato ferito, uno degli apparecchi è stato centrato dal fuoco nemico. Poteva finire come un’altra Mission Impossible d’infausta memoria, quella che Jimmy Carter mandò allo sbaraglio nel deserto iraniano per tentare di liberare gli ostaggi Usa detenuti nell’ambasciata di Teheran.
«Perché non paghiamo i riscatti, come fanno gli europei?». A lanciare questo interrogativo è un giornalista autorevole, David Rohde, editorialista di Reuters. «La questione del pagamento dei riscatti – dice Rohde – quanto meno dovrebbe uscire dall’oscurità. E’ un tema che merita un dibattito pubblico in America». Da tempo gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, a differenza di molti paesi europei, non prendono in considerazione le richieste di riscatti. (Però per riavere un soldato, Bowe Bergdahl, liberarono cinque Taliban da Guantanamo). Per Foley il “prezzo” di Is era 100 milioni di euro. Per Washington cedere vorrebbe dire finanziare direttamente il più pericoloso nemico dell’America.
I rapimenti sono diventati una delle risorse economiche di Al Qaeda: 125 milioni di dollari in cinque anni. Ma ora la controversia sui riscatti si ripropone subito: dopo Foley rischia la decapitazione il suo compagno di prigionia Steven Sotloff, reporter freelance per Time.
Questa controversia si aggiunge ad un altro timore che Obama ha discusso con i suoi consiglieri del National Security Council: la crescente capacità di reclutamento di Isis fra i musulmani d’Occidente. Molti dei quali non solo abitano in America o in Europa, ma hanno passaporti statunitensi, britannici, canadesi, francesi. Finora queste reclute del proselitismo sono partite dai loro paesi per andare a fare la jihad in Siria e in Iraq. Ma alcuni di loro potrebbero decidere di cimentarsi con attentati terroristici qui. Sul Washington Post la studiosa Souad Mekhennet, ricercatrice a Harvard e al Geneva Center for Security Policy, accende un faro su un fenomeno che non è sfuggito alla Casa Bianca: «Gli islamici di Is si stanno interessando da vicino alle proteste razziali di Ferguson nel Missouri. Come negli anni Sessanta ai tempi di Malcom X, sperano di poter sfruttare a fini di proselitismo la rabbia dei giovani afroamericani». La Mekhennet sottolinea la familiarità di Isis con i social media. «Usano Twitter, con hashtag Isishero oppure #FergusonUnderIs, lanciano appelli alla comunità afroamericana, dicono che i giovani neri in America sono cittadini di serie B mentre non verrebbero discriminati sotto la legge islamica della Sharia». In quanto a modernità della comunicazione, su Slate Joshua Keating osserva che «il video della decapitazione chiaramente è stato confezionato con cura, a parte l’orrida ferocia sembra una scena dalla serie televisiva Homeland». Il livello di preoccupazione della Casa Bianca è tale da sdoganare un tema tabù: pur di sconfiggere Is, il male maggiore, si può concepire un’alleanza tacita con il regime siriano di Assad? Alcuni parlamentari inglesi lo sostengono apertamente. In America Tony Badran, esperto della Siria alla Foundation for Defense of Demcoracies, pensa che siamo già entrati in una fase nuova: «Ovviamente Obama non può farlo in modo esplicito, ma la traiettoria lo porta in quella direzione: noi e Assad abbiamo lo stesso nemico». Ora lo dice il capo di Stato maggiore: bombardare Is in Siria può essere la prossima tappa.