VARIE 20/8/2014, 20 agosto 2014
APPUNTI PER GAZZETTA - IL REPORTER USA DECAPITATO
ARTICOLI DI STAMATTINA
CORRIERE DELLA SERA
DAVIDE FRATTINI
La ricerca Il messaggio postato su Twitter da «findjamesfoley.org»
in cui si chiedeva aiuto per «trovare» il giornalista americano quarantenne ucciso ieri: «Scomparso da 635 giorni»
James Foley aveva insegnato a leggere e scrivere ai carcerati prima di voler tornare lui a studiare, a imparare un nuovo mestiere. A 35 anni aveva scelto di percorrere le strade impolverate del Medio Oriente, anche se l’idea gli era venuta mentre lavorava nella prigione alla periferia di Chicago, vite deragliate, storie da raccontare. Come quelle che era andato a cercare in Afghanistan, il primo servizio all’estero, con la 173esima Divisione, tra le montagne della provincia di Kunar, negli avamposti americani circondati dai combattenti talebani.
In Afghanistan era rimasto mesi, con la telecamera girava i video che inviava al sito Globalpost, nell’agosto del 2010 aveva seguito la 101esima, le Aquile urlanti, durante l’offensiva nella valle dell’Arghandab, quella che avrebbe dovuto cambiare l’andamento della guerra e l’immagine dei soldati tra i contadini locali: sorrisi, riunioni con gli anziani dei villaggi, progetti per fare arrivare l’acqua potabile dove non c’era mai stata. Riprendeva i bambini che chiedevano le penne ai militari in pattuglia tra i muri di fango, ammetteva di essere un po’ deluso perché non era ancora riuscito a filmare uno scontro a fuoco: «Si vendono bene ai grandi network», diceva. Era un freelance, girava a spese sue. Come in Siria, dov’era stato più volte prima di essere rapito il 22 novembre del 2012 nella città di Taftanz, era entrato dal confine turco. Un’inchiesta condotta da Globalpost aveva sostenuto che fosse detenuto dal regime in un carcere vicino a Damasco.
Ieri lo Stato Islamico ha diffuso il video della sua esecuzione, Viene mostrata una fotografia del periodo afghano: James indossa il giubbotto antiproiettile, color verde marcio, una maglietta mimetica. I fondamentalisti vogliono implicare che fosse legato all’esercito. Era un giornalista, come altri aveva accettato di essere «embedded», di accompagnare le truppe nelle missioni, l’unico modo di poter arrivare alla prima linea, di poter visitare aree altrimenti troppo pericolose, di vedere anche quello che l’esercito non vorrebbe mostrare. E’ il fratello John ad aver scelto la carriera militare, pilota d’aviazione. A lui James – vestito di una tuta arancione simile a quella dei prigionieri a Guantanamo – è costretto a rivolgersi dai suoi carnefici, le ultime parole che gli hanno imposto prima di decapitarlo: «Pensa a quel che stai facendo, pensa alle vite che distruggi, pensa a chi ha preso la decisione di bombardare l’Iraq. Sono morto quel giorno John, quando i tuoi commilitoni hanno sganciato le bombe sulla popolazione. Speravo di avere più tempo, la speranza della libertà e di rivedere la mia famiglia ancora una volta. Quella nave ha lasciato il porto, alla fine sarebbe stato meglio non essere americano». Il filmato, di cui la Casa Bianca sta ancora verificando l’autenticità, è intitolato «Messaggio all’America» e le immagini finali mostrano un altro giornalista, indicato come Steven Joel Sotloff: «La vita di questo cittadino americano dipende dalla tua prossima decisione, Obama», proclama con accento britannico il terrorista mascherato e bardato di nero.
James Foley era stato sequestrato anche in Libia, dove aveva seguito la rivolta contro Muhammar Gheddafi fin dall’inizio nel febbraio del 2011. I soldati del Colonnello avevano fermato l’auto su cui viaggiava con altri giornalisti (uno di loro era stato ucciso) e li aveva portati via. Allora la famiglia era stato in grado di rintracciare i suoi spostamenti, trascinato per il Paese dai carcerieri, e dopo 45 giorni di campagna per la liberazione, il regime aveva finito con il rilasciarlo.
Davide Frattini
SECONDO PEZZO
Il sequestro
James Foley era stato rapito il 22 novembre 2012 in un Internet point nel nord-ovest della Siria, dove realizzava video sulla guerra civile per la GlobalPost
Il lavoro
Foley era un freelance con esperienza sui fronti di guerra, dalla Libia all’Afghanistan. Ha compiuto 40 anni nel 2013, da prigioniero. Lascia quattro fratelli e i genitori, John e Diane, di Rochester, New Hampshire
Il video
«Messaggio all’America»: con accento inglese un miliziano dell’Isis (Stato Islamico in Iraq e nel Levante) ha detto che l’uccisione di Foley è la risposta all’intervento Usa in Iraq
DALLA NOSTRA INVIATA NEW YORK — La notizia si è diffusa dapprima su Twitter, dove il video della presunta decapitazione di James Foley era stato pubblicato in serata su account attribuiti all’Isis. Alcuni di quei profili sono poi scomparsi, probabilmente cancellati dagli amministratori del sito di micro-blogging, ma allora il video è riapparso su YouTube. Titolo: «Un messaggio per l’America dallo stato Islamico». Il messaggio è che questa è la punizione per l’intervento di Obama in Iraq. C’è voluta un’ora perché le principali tv americane spostassero i riflettori da Ferguson, dove un diciottenne nero è stato ucciso dieci giorni fa, sull’Iraq, anche per la difficoltà dei media nel confermare la notizia.
Dopo la mezzanotte, i siti delle tv Nbc News e di Pbs Newshour , con cui il giornalista collaborava, sono stati tra i primi ad annunciare che era «apparentemente» stato giustiziato. Accanto alla cautela, sono scattati subito anche lo choc e la rabbia, come nell’apertura del New York Daily News : «Selvaggi». La Casa Bianca è intervenuta: «Stiamo cercando di verificare la notizia al più presto possibile — hanno annunciato i portavoce di Obama, che intanto è ripartito per la sua tormentata vacanza a Martha’s Vineyard — . Se dovesse rivelarsi vera, siamo sconvolti dall’omicidio brutale di un innocente giornalista americano ed esprimiamo le nostre più profonde condoglianze alla sua famiglia e ai suoi amici». Anche la famiglia di Foley, attraverso un sito Facebook creato per sostenere la sua liberazione, chiede di aspettare: «Sappiamo che molti di voi stanno cercando conferme e risposte. Per favore, siate pazienti, e pregate per i suoi cari».
Molti media, inclusa la tv Cnn e la rivista Time , hanno scelto già ieri notte di non mostrare per intero il video della decapitazione, ma solo le immagini surreali di quel quarantenne in tuta arancione nel mezzo del deserto, accanto al suo carnefice in nero. In pericolo ci sarebbe la vita di un altro giornalista, Steven Sotloff, collaboratore di Time , anche lui visibile nel video: il suo destino, avverte il terrorista con accento inglese, dipende «da quello che farà Obama». Gli Stati Uniti non erano certi che Foley si trovasse in mano dell’Isis, pensavano che potesse essere stato catturato dal regime di Assad. Ma il governo americano non si fermerà, assicurano i commentatori interpellati dalla Cnn. E il dolore comincia a trovare sfogo, ancora una volta, sui social network. «Non riesco a respirare, sono così inorridita — scrive Clarissa Ward, una collega della tv Cbs —. Era mio amico, era un giornalista, era un brav’uomo. Non ci sono parole, solo orrore».
Viviana Mazza
RENZI A BAGDAD
ALESSANDRO TROCINO
ROMA — Una visita lampo oggi in Iraq, a Bagdad poi a Erbil, prima di far rientro in Italia già in serata. Matteo Renzi rompe gli indugi e annuncia il suo viaggio in Medio Oriente, che arriva nelle stesse ore in cui il ministro degli Esteri Federica Mogherini e il responsabile della Difesa Roberta Pinotti, davanti alle commissioni riunite Affari Esteri e Difesa di Camera e Senato, presenteranno un’informativa del governo sugli sviluppi della crisi irachena. Al centro dell’incontro, la decisione, presa in sede europea, di inviare armi in sostegno dei peshmerga curdi, che combattono contro l’avanzata dei jihadisti dell’Isis.
Il premier, dunque, lascerà oggi Forte dei Marmi per partire alla volta dell’Iraq, dove dovrebbe incontrare il presidente Fuad Masum, il premier uscente Nouri Al Maliki e il premier incaricato Haider Al Abadi. Al termine dei colloqui, Renzi si dovrebbe spostare a Erbil, nel Kurdistan iracheno, per incontrare il capo del governo regionale Masud Barzani. In programma c’è anche una possibile visita al campo profughi.
Ma l’attenzione politica è concentrata anche sul Parlamento e sulla riunione congiunta delle Commissioni Esteri e Difesa. L’appuntamento delle 12.30 sarà preceduto da un vertice, che si terrà alle 12, tra i quattro presidenti di Commissione. L’oggetto è valutare modalità e tempi di un eventuale voto. Il primo scenario possibile è quello che prevede la presentazione dell’informativa, il successivo dibattito e poi il semplice intervento dei capigruppo che darebbero mandato politico al governo di procedere, senza un voto esplicito. Voto che non sarebbe necessario, visto che non si tratta di decidere l’invio di truppe, ma di armi. Ma c’è anche una seconda opzione, che prevede il voto di una mozione di maggioranza, per formalizzare il sostegno del Parlamento. In quel caso le Commissioni dovrebbero riunirsi separatamente, perché la congiunta non può esprimere un voto. La mozione di maggioranza è già pronta ma si deciderà all’ultimo se presentarla, anche sulla base del consenso: se non sarà ampio è probabile che venga evitata.
Per questo si guarda anche all’atteggiamento di Forza Italia, che potrebbe convergere sulla maggioranza. Anche se ha posizioni non sempre coincidenti. Si segnala, per esempio, la polemica del senatore Francesco Giro, che critica il viaggio di Renzi: «Mi pare in stato confusionale, avrebbe fatto meglio ad aspettare la riunione del Parlamento». E Fabrizio Cicchitto (Ncd) usa parole che vanno ben oltre le decisioni già assunte di inviare armi: «C’è un genocidio in corso, armare i curdi non basta. Occorre una risposta militare, compresi i bombardamenti». Frasi non condivise da Nicola Latorre, presidente pd della commissione Difesa del Senato: «In momenti come questi bisogna pesare le parole. Il nostro compito è quello di sostenere i peshmerga, non di bombardare. La situazione certo non è facile, ma andrà valutata insieme agli organismi internazionali».
Chi è contrario anche solo alla fornitura di armi è il Movimento 5 Stelle. Che ha già pronta una mozione da mettere ai voti. «Poi dipenderà da cosa ci dicono — spiega Massimo Artini —. Un conto è inviare giubbotti antiproiettili, un altro kalashnikov». Contraria anche Sel, che ha preparato una sua risoluzione: «Ci sembra assurdo l’invio di armi — spiega Erasmo Palazzotto, capogruppo Esteri al Senato —. Un nuovo Stato del Kurdistan iracheno rischierebbe di destabilizzare, accelerando il processo di disgregazione. Molto più sensato sarebbe chiedere l’intervento di un contingente di interposizione Onu e di una Conferenza di Pace». Possibilità di convergenze con i 5 Stelle? «Se la risoluzione riproduce le parole di Di Battista no, altrimenti è possibile».
Comunque vada, la partenza delle armi è imminente. Dopo la visita (con polemiche) del ministro Pinotti in Sardegna, gli specialisti militari arrivati da Aulla stanno valutando l’arsenale del deposito di Guardia del Moro per capire se e quale materiale potrebbe essere inviato in Iraq.
Alessandro Trocino
Se è vero infatti che il nostro Paese, presidente di turno dell’Unione europea, è rimasto fuori dai negoziati sull’Ucraina di lunedì a Berlino, mediati (senza successo) da Francia e Germania, sull’Iraq siamo davanti a tutti. Mentre il premier è oggi in visita nel Paese, Mogherini e il ministro della Difesa Roberta Pinotti sosterranno davanti alle Commissioni Esteri e Difesa del Parlamento la necessità di inviare armi ai curdi, mostrando la strada alla Ue.
REPUBBLICA
ANNA LOMBARDI
LO HANNO vestito
con gli abiti arancioni dei prigionieri di Guantanamo, rapato a zero e costretto a inginocchiarsi davanti a un uomo vestito di nero. Poi gli jihadisti dell’Is lo hanno decapitato davanti alle telecamere.
Prima di essere ucciso James Foley, 40 anni, il free lance di Boston scomparso in Siria il 22 novembre 2012 — ironia della sorte, il giorno del ringraziamento negli Stati Uniti — si è rivolto alla famiglia lamentando che l’America e nello specifico il presidente Obama, si sono dimenticati di lui. Le immagini dell’esecuzione sono terribili, con l’uomo vestito di nero che affonda il coltello nella gola del reporter fino a tranciargli la testa di netto, per poi mostrare il corpo senza testa in un lago di sangue, abbandonato nel deserto. Apparso inizialmente sui siti islamici, il video dall’eloquente titolo “A message to America”, messaggio all’America, è
subito rimbalzato sulla rete facendo il giro del mondo: anche se YouTube ha provveduto a rimuoverlo quasi immediatamente. Nel video, lungo pochi minuti, si sente la voce anche dell’uomo mascherato, che a nome dei terroristi del Califfato islamico nel video afferma che un secondo
giornalista è nelle loro mani: il corrispondente del settimanale Time Steven Joel Sotloff scomparso in Libia nel 2013, che nel terribile video viene indicato come la prossima vittima. La cui sorte a questo punto sarebbe, così dicono i terroristi «nelle mani di Barack Obama. Sarà lui a scriverne la condanna con le decisioni che prenderà nelle prossime
ore». L’allusione ai raid aerei americani e ai bombardamenti con i droni che negli ultimi giorni hanno costretto gli uomini del califfato islamico ad arretrare è più che evidente. Se il massaggio non fosse abbastanza chiaro, le immagini sono state d’altronde fatte precedere da una scritta in arabo e in inglese che spiegano che questa è la risposta dell’Is alle scelte politiche americane.
Il free lance di Boston aveva una grande passione per il Medio Oriente. Era già stato catturato nel 2011 dalle forze libiche fedeli al colonnello Gheddafi ed aveva passato 44 giorni in un carcere libico prima di essere rilasciato. Ciò nonostante aveva scelto di tornare al suo lavoro e aveva accettato di andare in Siria per la France Presse. Fino ad ora la sua famiglia aveva sempre sperato e alla sua liberazione aveva dedicato un sito dove si racconta, fra le altre cose, il suo impegno costante verso le persone disagiate.
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Nel giorno in cui le commissioni Esteri e Difesa del Senato e della Camera danno via libera all’invio delle armi ai curdi, il premier Matteo Renzi atterra a Baghdad, in Iraq, per una missione lampo ma altamente delicata a causa degli scontri del Paese e per gli occhi del mondo puntanti sull’ennesimo conflitto che, secondo il grido d’allarme del Papa, alimenta «la terza guerra mondiale».
«L’Europa deve essere in Iraq»
«L’Europa in questi giorni deve essere qui, altrimenti non è Europa, perché chi pensa che la Ue volti le spalle davanti ai massacri, impegnata solo a pensare allo spread, o sbaglia previsione o sbaglia semestre». Matteo Renzi giunge a Baghdad per una visita lampo nella doppia veste di premier italiano e presidente di turno della Ue, proprio mentre a Roma le Camere stanno decidendo il sostegno del nostro Paese alla resistenza curda. Mentre sui giornali di tutto il mondo sono ancora presenti le raccapriccianti immagini dello sgozzamento del giornalista americano James Foley per mano dell’Isis, Renzi vola a Baghdad ed Erbil. Nella capitale il premier incontra il premier uscente al Maliki nel palazzo presidenziale dentro la zona verde ed esprime amicizia e vicinanza al governo e al popolo iracheno. C’è uno spirito di amicizia tra i nostri popoli e i nostri governi, oggi è arrivato il sesto aereo di aiuti umanitari, ha ricordato Renzi. Poi, da presidente della Ue ha ammonito: «Se qualcuno pensasse che davanti ai massacri l’Europa volta le spalle e pensa solo allo spread, beh, quel qualcuno ha sbagliato previsione. Oppure ha sbagliato semestre». «L’Europa - ha detto ancora - deve essere nei posti come in Iraq dove la democrazia è messa in pericolo». Nella battaglia contro il terrorismo l’Europa sa bene da che parte stare, come ha dimostrato nel recente consiglio Affari Esteri a Bruxelles. Quindi «questa battaglia noi la vinceremo, voi la vincerete».
Via libera alle armi ai curdi
Le commissioni Esteri e Difesa del Senato hanno approvato la risoluzione dei rispettivi presidenti che sostiene il governo nell’invio di aiuti militari ai curdi nell’ambito della crisi in Iraq. Il via libera è giunto con 27 voti favorevoli e 4 contrari, nessuno astenuto. Alla Camera i sì sono stati 56, i no 13.
LA STAMPA DI STAMATTINA
GIORDANO STABILE
Vestito di rosso come i detenuti di Guantanamo. Sullo sfondo il deserto, dell’Iraq, o più probabilmente della Siria. Dietro un miliziano vestito di nero, armato di coltello. Poi l’orrore. La decapitazione, la testa mozzata poggiata sul corpo steso sulla sabbia. Un gesto sanguinario ripreso da una videocamera e poi postato su YouTube. Una messinscena terrificante per mostrare a tutto il mondo la vendetta e la sfida dell’Isis all’America.
A morire, innocente, è il giornalista americano James Foley, 40 anni. Era stato rapito al confine turco-siriano il 22 novembre del 2012. Uno dei tanti reporter occidentali finiti nelle mani dei terroristi islamici nella terribile guerra civile siriana. Rapimenti che finora, come anche nel caso di Domenico Quirico della «Stampa», si erano conclusi quasi tutti con la liberazione degli ostaggi, dopo lunghe trattative.
Ma la ferocia della guerra islamista nel Levante è salita di un altro gradino. L’Isis, che ora si fa chiamare semplicemente Stato islamico, ha conquistato metà della Siria e metà dell’Iraq. Ha fondato, o «restaurato», il Califfato, vuole espandere ancora i suoi territori verso Est, Ovest, Sud. Sulla sua strada ha i debolissimi governi di Damasco e Baghdad. E i guerriglieri curdi, i molto più combattivi peshmerga, che sono passati alla controffensiva verso Mosul, aiutati dai raid aerei di droni e degli F-18 americani.
L’intervento deciso da Obama ha cambiato le sorti almeno di quella battaglia. I miliziani sono in ritirata, e ieri hanno subito anche l’attacco delle truppe regolari irachene a Tikrit, uno dello loro roccaforti per l’avanzata verso la capitale irachena. Un intoppo che non era stato evidentemente calcolato bene dal «califfo». L’altro ieri era stato diffuso un primo video in cui il leader dell’Isis prometteva di «annegare nel sangue» gli americani. Ieri è stato versato il primo.
Foley, un ex insegnante che aveva abbracciato la vocazione del reporter, era un freelance che lavorava per il «Global Post», entrato in Siria assieme a una troupe della Nbc. «Voleva solo dar voce alla gente che soffre», era stato il commento della madre Diane subito dopo il rapimento. Per la sua liberazione si era formato un comitato, molto attivo sui social media su Internet.
Gli stessi media che ora usano i terroristi per la loro strategia di destabilizzazione degli avversari. Il video della decapitazione, poi rimosso da YouTube, s’intitolava «Messaggio all’America» e prometteva altre esecuzioni, a cominciare da un altro giornalista, Steven Joe Sotloff, del «Time», rapito a metà del 2013.
Una sfida aperta agli Stati Uniti, colpevoli di «aver cominciato questa guerra», in Iraq. Prudente, ancora ieri a tarda sera, la Casa Bianca: «Abbiamo visto il video - è stato spiegato in un comunicato -. L’intelligence sta lavorando per determinarne l’autenticità. Se è vero, siamo costernati dalla brutale uccisione di un giornalista americano innocente».
(ANSA) - James Foley poco prima dell’esecuzione nel video diffuso sul web dai miliziani dell’Isis
CORRIERE.IT
Nel video «Messaggio all’America» diffuso dagli jihadisti sunniti dello Stato Islamico in cui viene decapitato il reporter americano James Foley il boia, totalmente vestito di nero, con il volto coperto, parla con uno spiccato accento britannico. Elemento questo che fa temere si possa trattare di uno dei tanti sudditi di Sua Maestà aggregatisi agli jihadisti in Siria e Iraq tanto che il primo ministro britannico David Cameron ha interrotto all’improvviso le vacanze in Portogallo per tornare a Londra
«Se vero, è un omicidio sconvolgente e turpe», ha commentato l’ufficio del primo ministro. Nonostante si debba ancora confermare definitivamente l’autenticità del video, il capo della diplomazia britannica ha precisato che «tutti i segni indicano che sia originale».
È necessario, ha poi sottolineato il ministro degli Esteri britannico Philip Hammond, che gli esperti verifichino se l’uomo - che nel video è vestito di nero, con il volto coperto e parla con un accento britannico - che ha ucciso Foley sia effettivamente del Regno Unito. «Da tempo che c’è un numero significativo di cittadini britannici in Siria e in Iraq che operano con organizzazioni estremiste»
LE IMMAGINI E LE PAROLE
Nelle immagini si vede Foley nel deserto in una località imprecisata. È in ginocchio, coi i capelli rasati e indossa una tuta arancione simile a quelle che fino a qualche tempo fa indossavano tutti i prigionieri del carcere cubano di Guantanamo (ora sarebbero bianche).
Accanto a lui c’è un terrorista vestito di nero che appunto ha un forte accento inglese e dice: «Questo è James Foley, un cittadino americano... i vostri attacchi hanno causato perdite e morte tra i musulmani... non combattete più contro una rivolta, noi siamo uno stato, che è stato accettato da un gran numero di musulmani in tutto il mondo. Quindi, ogni aggressione contro di noi è un’aggressione contro i musulmani e ogni tentativo da parte tua, Obama, di attaccarci, provocherà un bagno di sangue tra la tua gente».
Poi Foley parla della guerra in Iraq, le sue parole sono chiaramente dettate dai terroristi, legge un testo probabilmente scritto dal suo stesso esecutore: «Mi rivolgo ai miei amici, alla mia famiglia, ai miei cari affinché si ribellino contro il mio vero uccisore, il governo americano, perché quello che mi succederà è solo il risultato della sua noncuranza e dei suoi crimini».
In un secondo momento il reporter si rivolge al fratello John, membro dell’esercito americano: «Quel giorno in cui i tuoi colleghi hanno lanciato quella bomba su queste persone, hanno firmato la mia condanna a morte. Vorrei aver avuto più tempo, vorrei aver potuto avuto la possibilità di vedere la mia famiglia un’altra volta, ma è troppo tardi. Soprattutto, vorrei non essere stato Americano».
Poi riprende la parola il boia identificandosi come membro dell’Iss: «Oggi il vostro esercito ci ha attaccato. Qualsiasi vostro tentativo di negare il diritto a vivere in piena serenità ai musulmani nel Califfato islamico sarà pagato col sangue della vostra gente». Infine il boia taglia la gola a James Foley e poi viene abbandonato il corpo decapitato.
L’ALTRO GIORNALISTA
Prima di andarsene però il jihadaista mostra l’immagine di un altro giornalista americano, Steven Sotloff, anche lui in mano ai jihadisti. Nessuna menzione viene però fatta di Tice, 33 anni, scomparso il 14 agosto 2012 a nord di Damasco e a ridosso del confine con il Libano, in una regione che all’epoca era contesa tra forze del regime di Bashar al Assad e ribelli locali.
2. FOLEY STORY
Obama e’ stato informato mentre era sull’Air Force One, di ritorno a Martha’s Vineyard, dopo essere rientrato a Washington per due giorni. Il presidente, riferisce la Casa Bianca, continuera’ ad essere aggiornato.
IRAQ - JIHADISTI DELL’ ISIS IRAQ - JIHADISTI DELL’ ISIS
Foley e’ stato rapito il 22 novembre 2012. Fino al giorno prima aveva inviato reportage e video dal nordovest della Siria, teatro di violenti scontri tra ribelli e regime di Damasco. Secondo le ricostruzioni, sarebbe stato prelevato nelle vicinanze di Taftanaz, insieme al suo autista e al suo traduttore, che sono poi stati rilasciati.
Reporter di guerra esperto, Foley aveva gia’ coperto i conflitti in Afghanistan e Libia. Nell’aprile 2011 era gia’ stato vittima di un rapimento nell’est della Libia, ad opera di un gruppo di sostenitori del regime di Gheddafi. Con lui erano stati prelevati altri due giornalisti, l’americana Clare Gillis e lo spagnolo Manu Brabo, mentre un quarto, il sudafricano Anton Hammerl, era stato ucciso.
I tre avevano passato 44 giorni in prigionia prima di essere liberati. Dopo il suo rapimento, la famiglia Foley ha creato un sito web (www.freejamesfoley.com) per chiedere il suo rilascio e sensibilizzare l’opinione pubblica. Oggi, quel sito, in cui sono pubblicate molte notizie del giornalista, è stato rapidamente inondato di messaggi di cordoglio, diffusi via Twitter da tutto il mondo.