Paolo Beltramin, Corriere della Sera 20/8/2014, 20 agosto 2014
IL «PICCOLO MONDO ANTICO» CHE BEFFÒ LA CENSURA DEL FASCISMO
Perché leggere una sceneggiatura? Federico Fellini, che i suoi film li scriveva insieme a un certo Ennio Flaiano, raccontava a tutti che lui delle sceneggiature faceva volentieri a meno e che si presentava sul set con in tasca un fogliettino grande come un biglietto d’autobus, sul quale la notte prima aveva segnato qualche appunto.
Le solite bugie felliniane: da quando con Flaiano ci litigò, complice un volo aereo in classe turistica da Los Angeles a Roma, i film non gli riuscirono più come prima. Secondo Pier Paolo Pasolini, invece, la sceneggiatura non è altro che una «struttura che vuole essere altra struttura»: definizione un po’ troppo strutturalista e smentita dalle stesse sceneggiature pasoliniane, ancora oggi meravigliose da leggere e pubblicate una decina d’anni fa in due Meridiani.
La prova di quanto possa essere sorprendente studiare i dialoghi per il cinema è anche in un volume appena edito da New Press, Piccolo mondo antico. Dalla sceneggiatura allo schermo , a cura di Alberto Buscaglia e Tiziana Piras. Tratto da un grande romanzo che oggi non si legge più, scritto nel 1895 da Antonio Fogazzaro, il film diretto da Mario Soldati nel 1941 all’uscita ebbe un successo enorme; ma pochi anni più tardi, con la rivoluzione neorealista, venne bollato come reo di «calligrafismo» (bella forma e poca sostanza, almeno allo sguardo pieno di certezze della critica marxista) e dimenticato.
Eppure, quel copione steso dal regista insieme a Mario Bonfantini, Emilio Cecchi e Alberto Lattuada nell’estate del 1940, a poche settimane dall’entrata dell’Italia in guerra, non prefigura affatto solo un esercizio di stile. Agli occhi della censura di regime il film avrebbe dovuto «ravvivare negli italiani la fiamma della passione patriottica»; ma pagina dopo pagina, l’epopea risorgimentale al centro del romanzo assume un valore opposto a quello della retorica fascista. Se la «riduzione» di un romanzo di quasi 400 pagine in un film di due ore impone di «asciugare, sfrondare e condensare», come ricorda Luciano De Giusti nell’introduzione, Soldati e i suoi collaboratori lasciano da parte le tematiche religiose; fanno ampio uso del dialetto, osteggiato dal regime; trasformano il protagonista, Franco Maironi, in un eroe ribelle, pronto a dare la vita per liberare l’Italia dalla dominazione austriaca e quindi, indirettamente, germanica.
All’origine del volume un dattiloscritto originale, appartenuto forse a un aiuto regista o alla segretaria di edizione. È strutturato «all’italiana», cioè diviso su due colonne: quella di sinistra dedicata alle inquadrature, quella di destra ai dialoghi; a margine, numerosi schizzi a matita di situazioni e personaggi. I curatori della pubblicazione segnalano in nota ogni variazione tra la sceneggiatura originale e i dialoghi del film (disponibile in dvd).
Scene intere furono tagliate per dare più ritmo al racconto, furono messi a punto «ritocchi» per evitare guai con la censura: come i riferimenti alla «sudditanza» con l’Austria o l’appello del saggio zio a «cospirare» per l’indipendenza della nazione, verbo poco gradito all’ortodossia totalitaria. Impossibile, oggi, ricostruire con certezza le impressioni degli spettatori di allora.
Soldati, anni dopo, raccontò: «Il successo del film dipendeva da un incredibile sdoppiamento ottico. Una gran parte di pubblico vedeva il film da fascista e applaudiva perché era ignorante, confondeva una guerra per la libertà con una guerra contro la libertà, non distingueva gli austriaci dagli inglesi. Allo stesso tempo una piccola parte di pubblico vedeva il film da antifascista e applaudiva perché conosceva la storia e capiva la vicenda nel suo vero significato». E questo «sdoppiamento ottico», in fondo, è anche una sintesi dell’Italia fascista.