Goffredo Buccini, Corriere della Sera 20/8/2014, 20 agosto 2014
LA REALTÀ ROMANZESCA
No, il vento non la portò sopra una stella. La ripescarono una brutta mattina di gennaio del 1953, alla periferia di Milano, dalle parti di San Siro. La scorsero dei ragazzini che giocavano a pallone: le vesti strappate dai rovi, la faccia impiastricciata dal trucco della notte, la schiena bucata da sei colpi di pistola. «La mondana trovata uccisa nell’Olona», titolò il giorno dopo la Nuova Stampa. Allora si facevano titoli così, neorealisti e senza misericordia. L’incipit era «...una vita torbida troppo presto conclusasi». Tanto presto che a nessuno sarebbe mai importato un accidente della morte di Maria Boccuzzi, una ragazzetta calabrese che, per perdersi su al Nord nel giro delle ballerine da night e poi in quello delle prostitute da poche lire, tra le macerie del dopoguerra, s’era scelta un nome d’arte dal sapore felliniano: Mary Pirimpò.
A chi volete interessi una poveretta smarrita nella nebbia in mano a qualche protettore? Una che infine decide di sfuggire a quell’esistenza schifosa e all’ultimo appuntamento — quello fatale — si porta ingenuamente in borsetta i gioielli e perfino la polizza dell’assicurazione, suo tesoro segreto? Importò, forse, a un ragazzino di tredici anni che da Genova era stato sfollato a Revignano d’Asti per scampare ai bombardamenti e che lì tornava poi ogni anno, dai nonni. Forse lì lesse la notizia sul giornale, forse gliela raccontarono. Il forse è d’obbligo, perché quel ragazzino si chiamava Fabrizio De André, e la storia di Mary Pirimpò gli ispirò la Canzone di Marinella. Forse. Perché Faber, come lo chiamava il suo amico Paolo Villaggio, non la disse mai chiara a riguardo, limitandosi a narrare in un’intervista tv, anni dopo, che l’idea gli era venuta da un fatto di nera accaduto attorno al 1955, che la protagonista era una ragazza che batteva «lungo le sponde del Tanaro o del Bormida» e che lui aveva cercato «di addolcirle la morte». Sbagliava fiume, forse per dimenticanza, forse per mescolare ancora un poco fantasia e realtà: una realtà che, grazie a lui, era diventata poesia.
Mora, occhi intensi, bella di quella bellezza rotonda della sua epoca, Maria Boccuzzi era nata nel 1920 a Radicena, una frazione della Calabria sperduta nel nulla. Coi suoi, braccianti agricoli, pativano la fame: provarono a inseguire il sogno di Milano, che allora doveva sembrare più o meno l’America. Aveva quattordici anni quando entrò alla Regia manifattura di tabacchi di via Moscova, una città nella città, migliaia di operai. Lì incontrò uno studente spiantato, Mario, suo compagno di lavoro, se ne invaghì, scappò di casa, in capo a un anno la passione evaporò e lei si trovò senza Mario e senza più famiglia. Le era rimasto il disonore, condanna senza appello. Da questo punto la storia scorre tra fogliettone d’appendice e cronaca: la guerra, di nuovo la fame, peregrinazioni tra Torino e Firenze, un nuovo amore per Jimmi, ex ballerino della compagnia di Wanda Osiris, il sogno di diventare lei stessa ballerina («la chimera dell’arte scenica», sic), la realtà dei night di nuovo a Milano, una Milano ancora incupita dagli orrori del passato e già vogliosa di futuro; Jimmi, ras di quelle notti, e Carlone, protettore ambiguo e spietato, come il Gatto e la Volpe di quest’ultimo tratto di strada. Lei consegna il suo cuore a Jimmi e Jimmi la mette nelle mani di Carlone. Le luci dei night si spengono e le luci dei lampioni le illuminano l’unico mestiere che le rimane. Dicono che l’ultima notte, il 28 gennaio del 1953, abbia lottato con l’assassino, dibattendosi in una macchina, sulle rive del fiume. Un vigilante vide qualcosa e testimoniò, senza mai riuscire a spiegare cosa ci facesse lui, in quel posto in aperta campagna, senza
alcun palazzo da vigilare. Alla fine Jimmi e Carlone ne uscirono puliti, l’assassino non fu mai trovato. Nessuno se ne sarebbe fatto un cruccio.
Tuttavia, molti anni dopo, l’amore per De André spinge qualcuno a domandarsi chi davvero fosse Marinella: la traccia sta in quell’intervista tv. Uno psicologo di Asti, Roberto Argenta, pubblica nel 2007 un articolo su La Stampa dando conto della sua appassionata ricerca, ore e ore di lavoro in emeroteca concluse con una prima luce su quella piccola mondana uccisa tanto tempo prima, «una persona speciale e sconosciuta che, suo malgrado, ha avuto un ruolo importante nella storia della musica italiana». Uno scrittore appassionato del tema, Walter Pistarini, riprende il filo nel suo «Libro del mondo, le storie dietro le canzoni di Fabrizio De André». E nel 2012 anche Argenta esce con un libro, «Storia di Marinella... quella vera». Da allora, Mary Pirimpò è strappata al buio che la avvolse quella notte di gennaio. E poco importa che sia davvero la fonte della canzone. Perché certo Marinella fu scritta per lei, per l’amica Wanduccia che venne a riconoscerla all’obitorio e per tutte quelle così, con una vita d’un solo giorno, «troppo presto conclusasi»: come le rose.