Marco Palombi, il Fatto Quotidiano 20/8/2014, 20 agosto 2014
IL MODELLO SPAGNOLO, LA SCORCIATOIA PER IL BARATRO
Ci sono un paio di numeri, tra quelli diffusi la scorsa settimana da Eurostat, che forse sarebbe interessante sottoporre ai cantori del “modello spagnolo”, quelli che basta fare le riforme (che poi sono le riforme del lavoro e i tagli di spesa pubblica) e si finisce ad abitare nella terra di latte e miele: la Spagna si sta avviando, grazie ad un persistente deficit di partite correnti certificato dall’ultimo rapporto Eurostat, verso la crisi di debito estero che la spinse nel baratro già tre anni fa.
Un breve riassunto. Abbiamo già raccontato - ma giova ripeterlo - che la crescita spagnola di questi ultimi mesi è di quel genere che dovrebbe far inorridire i rigoristi d’ogni ordine e grado: è infatti finanziata in deficit. L’indebitamento netto di Madrid rispetto al Pil è stato del 10% circa nel 2011 e 2012, l’anno scorso s’è attestato oltre il 7% e quest’anno sarà più o meno in quella zona. Anche il debito pubblico ovviamente, che tanto preoccupa i commentatori italiani, continua a salire: era al 40% del Pil nel 2008, a fine 2014 secondo lo stesso governo spagnolo dovrebbe toccare il 99,5% e ha già superato la soglia psicologica dei mille miliardi. Non proprio una performance virtuosa in quanto a spesa pubblica, ma anche i cittadini non se la passano benissimo. Il settore bancario è ancora in piedi solo grazie alla massiccia iniezione di soldi pubblici tanto statali quanto europei.
Il tasso di disoccupazione, ad esempio, seppur in calo di qualche decimale è ancora superiore al 24%. Il miglioramento, peraltro, non è avvenuto come si racconta: è frutto da un lato di lavoro precario e a basso contenuto tecnico, dall’altro di emigrazione delle professionalità più rilevanti (skilled workers). Anche i settori che vanno bene - come l’automobile - in realtà presentano più di un problema: in Spagna ormai si fa solo assemblaggio di pezzi prodotti in altri paesi (Germania in testa) e anche i macchinari per fare questo vengono dall’estero. Risultato: il contributo del settore auto - che pure è il principale esportatore nel Paese - alla bilancia commerciale è praticamente nullo.
E qui si viene ai numeri di Eurostat e all’allarme che hanno scatenato in molti osservatori e commentatori spagnoli. Riguardano la bilancia commerciale, vale a dire la differenza tra quello che si vende all’estero e quello che si compra dall’estero: se si è in deficit ci si sta indebitanto con l’estero, se si è in surplus si stanno prestando soldi (ci sono delle eccezioni, ovviamente, ma il caso spagnolo non è tra queste).
Ebbene nell’ultimo rapporto si leggono due cose interessanti: la bilancia commerciale dell’Eurozona è in attivo, ma ovviamente non tutti i paesi lo sono (se qualcuno vende, qualcun altro deve comprare). Nei primi cinque mesi dell’anno la Germania ha come al solito il surplus maggiore (84 miliardi di euro), seguita a molta distanza da Belgio, Irlanda e Italia (appaiate a 14 miliardi). In deciso deficit Francia (-30,4 miliardi, il grande malato d’Europa) e poi la Spagna: erano 10 miliardi e dispari fino a maggio, se ci si aggiunge il dato di giugno si arriva quasi a 12. El Mundo ha titolato così: “Vola il deficit commerciale”. E poi: “Le esportazioni aumentano dello 0,5%, le importazioni del 5,3%”. Svolgimento: “Il deficit commerciale, uno degli squilibri che hanno portato alla crisi in Spagna, è pari a 11,8 miliardi nel primo semestre, quasi il doppio rispetto allo stesso periodo nel 2013”.
È uno dei busillis di più difficile soluzione dell’euro: la moneta unica ha reso più convenienti i prodotti del Nord Europa (tedeschi in primis) e questo ha fatto esplodere il debito estero (in larga parte privato) nei paesi del Mediterraneo. L’ha spiegato bene l’ex rettore della Bocconi e “eurista” convinto, Guido Tabellini, proprio al Fatto Quotidiano: in regime di cambio fisso (l’euro), se la Germania non fa una politica espansiva al suo interno aumentando i salari e la spesa pubblica (e non la farà), l’unica via che resta ai paesi periferici (come l’Italia e la Spagna) è fare austerità e deflazione interna.
Tradotto: tagliare i salari, la spesa pubblica e le tasse alle imprese per spingere le esportazioni e comprimere le importazioni (quando non ci sono soldi, ovviamente, crollano). La Spagna non ha capito la lezione: il prossimo passo, se non tornano a lasciarsi morire d’austerità, è la Troika.