Cosimo Cito e Stefania Parmeggiani, la Repubblica 20/8/2014, 20 agosto 2014
LA BATTAGLIA DEL SILENZIO
Il silenzio è rotto. Definitivamente. La musica, le voci, gli applausi, i fischi, le urla, i rumori invadono anche l’ultimo sport dove tacere era la regola: il tennis. Come nel calcio, nel basket, nella pallavolo, ma anche a teatro, al cinema, nei musei... Ovunque si assista a uno spettacolo chi sta sugli spalti, nei loggioni o in platea ha un solo istinto: partecipare. E vuol farlo ad alta voce. Resiste Wimbledon, ma chissà per quanto visto che a ribellarsi sono proprio quei campioni del tennis che ieri celebravano il rito senza permettersi una sola parola e che ora invece si dicono stanchi. Cercano il rumore, vogliono sentire il pubblico.
Ha rotto il silenzio per primo Novak Djokovic, numero uno del mondo: «Il pubblico partecipe fa salire l’adrenalina, tra uno scambio e l’altro a noi piace sentirli». Servito, Nole: agli Us Open, tra una settimana, nell’immane Arthur Ashe Stadium, un mondo da 20mila posti, avrà quanto rumore vorrà, e avrà anche cheerleader, luci, voci, colori e odori. Avrà tutta l’America che vorrà. Perché là è così, ogni anno, e i giocatori gradiscono. Anzi, lo preferiscono. Il tennis sta dunque seguendo gli altri sport, quelli vocianti. Quelli che, nel nome dello show, hanno alzato il volume e invaso di musica, rumori e frastuono ogni pausa possibile. Ma anche le azioni di gioco. Dal basket dei pro americani al circo mondiale della pallavolo, che ormai sono anni che riempie i vuoti di musica: non lascia che il silenzio si intrufoli in uno spettacolo che deve essere collettivo. “Deve” coinvolgere. «Giusto così — racconta Andrea Giani, ex campione del volley italiano —, i giocatori odiano il silenzio. Li smonta e quindi amano gli stacchi musicali tra gli scambi e durante le pause, l’interazione col pubblico». Amano il palazzetto ridotto (o elevato) a piazza o discoteca, l’adrenalina che si alza come i decibel, musica maestro, il pallone va giù meglio se l’aria è torrida e c’è l’inferno. Lo insegna l’Nba, cinema più che pallacanestro, ritmo, luci e musica durante il gioco. E pensare che un tempo, quando il pallone entrava nell’anello, si poteva sentire il “ciuff” della retina. Era il suono del tiro perfetto.
Ma non c’è tregua nelle grandi manifestazioni degli sport globali come nuoto o atletica, tempi morti
coperti dal gracchiare degli altoparlanti. Serve eppure stona, c’è ma non dovrebbe esserci. Ci sono limiti, spesso si va oltre. Nell’era di Facebook e Twitter, dell’abbattimento delle barriere tra spettacolo e spettatori, la gente vuole essere dentro lo show. Nel ciclismo le salite sono patria di spericolati fan disposti a tutto pur di entrare nell’inquadratura, e accade come sullo Zoncolan, durante l’ultimo Giro, col giovane Francesco Manuel Bongiorno lanciato verso la sua prima vittoria da professionista, ma costretto a mettere piede a terra per la disattenzione di uno spettatore. Lui disse, dopo, «il pubblico ci piace, il loro affetto ci fa volare». Però... Si suonano campanacci, nacchere, trombette, si danno pacche, secchiate, il ciclismo di oggi è rave-party e festa di paese, selfie e salame. Dove sono finiti i silenzi del Galibier, il suono del volo degli uccelli sulla Bonette, l’Izoard bianco di sole e quel deserto verticale piantato in Provenza e chiamato Ventoux, perché l’unico rumore, lì, un tempo, era quello del vento?
Spariti, cancellati. Come accade da anni in altri luoghi, là dove ascoltare — e quindi tacere — dovrebbe essere naturale: i teatri. Ne sanno qualcosa soprani e tenori che in Italia si misurano con i nostri loggionisti, nel mondo i più irruenti. Carlo Fontana, per 15 anni sovrintendente del Teatro alla Scala di Milano, ora amministratore del Regio di Parma e presidente dell’Agis (Associazione generale italiana dello spettacolo), non ha paura dei fischi: «La regola del silenzio non ha più senso, il pubblico deve essere libero di reagire. La bellezza di uno spettacolo risiede nella relazione che crea con lo spettatore».
Però a volte si esagera: non si contesta, si disturba. Un esempio? Il Don Carlo che nel 1992 ha inaugurato
la stagione lirica alla Scala.
Atto quinto, scena prima: Elisabetta è in ginocchio di fronte alla tomba di Carlo V. «Inizia a cantare e quando arriva al verso “Se ancor si piange in cielo”, ecco che dal loggione una voce gli risponde: “ Stasera piange Verdi . No, questo è inaccettabile». Non i fischi a fine rappresentazione, non la contestazione per un’opera che si considera deturpata. È una questione di modi, e di limiti. «Di educazione», sostiene Antonio Natali, direttore della Galleria degli Uffizi di Firenze. «Intendo educazione alla cultura, alla poesia, alla bellezza. La capacità di restare soli di fronte a un’opera, sostenerne la vista senza mandare messaggi, senza farsi un autoscatto, senza parlare con il proprio vicino». Il ritorno alla contemplazione, al museo come luogo sacro. «Gli Uffizi il lunedì sono un tempio greco, il martedì sono il mercato del pesce. Io non ambisco al tempio greco, io voglio un luogo frequentatissimo, dove se non c’è rispetto dell’opera almeno c’è il rispetto di chi vede nell’opera un testo poetico».
Più facile là dove si va per sincera curiosità culturale, come a una mostra di arte contemporanea: «In quel caso, in assenza di opere trasformate in feticci, si torna al godimento dell’arte». Piacere silenzioso, dunque. Che in pochi casi è lecito rompere: «Di fronte a un’installazione che prevede o sollecita la partecipazione del pubblico, per esempio». Oppure al cinema, se si assiste a una proiezione “disturbata”, ovvero una di quelle riservate alle mamme con bambini piccolissimi, a Bologna mette in calendario il Lumière. Ma è rumore per necessità, perché non può essere altrimenti. Non per scelta come sta accadendo nel tennis. Come succede da sempre nel calcio.
A proposito di battaglia del silenzio. «Il rumore attraversa in modo assillante le nostre vite, anche quando non lo desideriamo, anche se non ne abbiamo consapevolezza. E questo non lascia indenne il nostro inconscio». Duccio Demetrio, professore di filosofia e fondatore dell’Accademia del silenzio, combatte da tempo una battaglia per abbassare il volume delle nostre vite. Sulla sua strada ha incontrato intellettuali che la
pensano come lui e tanti, tantissimi cittadini che in ogni parte d’Italia firmano appelli per abbassare il volume delle città. A volte fanno centro e ottengono che almeno per una notte si balli in silenzio. È il caso delle “silent disco”. «Abbiamo iniziato quest’estate — racconta Antonio Miccolis del Circolo degli artisti di Roma — il venerdì e il sabato si balla nei giardini esterni, il dj mette la musica e i clienti l’ascoltano in cuffia». Un’esperienza non invasiva. Non delle orecchie altrui, almeno. E già diffusa nel mondo. «Perché cercare il silenzio — continua Demetrio — significa provare esperienze estetiche e creative intense, armonizzare le nostre vite». Per questo motivo la sua Accademia organizza “la scuola di pedagogia del silenzio” e mappa i luoghi in Italia più adatti al raccoglimento. «Città come Pompei non si possono visitare a ritmo di rock. Sarebbe come dissacrarle».
Già, peccato che a volte la poesia si scontri con la più prosaica delle realtà: un custode addormentato come quello che Scott Schuman, seguitissimo blogger americano, ha fotografato nel Palazzo reale di Napoli: russava. Non proprio una visita sacra.