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 2014  agosto 19 Martedì calendario

APPUNTI PER GAZZETTA – PENSIONI

(articoli presi da Rep, Cds, Sta, Lib, e S24. Mf non ne parla. Tutti del 19 agosto 2014)

DA REPUBBLICA
PENSIONI, UN MILIARDO ALL’ANNO DA QUELLE OLTRE I 3500 EURO NETTI PER AIUTARE ESODATI E CASSINTEGRATI
Tagli alle pensioni “d’oro e d’argento” calcolate con il vecchio metodo retributivo. Il governo pensa a un prelievo di solidarietà sulla differenza tra l’assegno pensionistico che si riceve in base alle regole pre riforma Dini (1996) e l’importo teorico che si sarebbe invece maturato applicando il metodo contributivo, quello adottato integralmente per i lavoratori più giovani. Nelle casse previdenziali potrebbe arrivare così un miliardo l’anno destinato a sostenere il reddito di coloro che a pochi anni dalla pensione perdono l’occupazione (gli esodandi) ma anche (almeno fino al suo totale superamento) la cassa integrazione in deroga che oggi garantisce un’indennità soprattutto ai lavoratori delle piccole imprese in crisi. Non è nemmeno escluso che una parte degli introiti possa essere dirottata a rafforzare le pensioni minime. Dipenderà tutto dalle risorse (che potrebbero salire anche a un miliardo e mezzo l’anno) e dunque dall’ampiezza della platea dei lavoratori coinvolti. Prima della pausa estiva i tecnici del ministero dell’Economia hanno ragionato in particolare su un’”asticella” piuttosto bassa fissata intorno ai 50-60 mila euro lordi all’anno di pensione. Più realistico che l’asticella sia messa a un livello superiore: 3.500 euro netti al mese. La decisione sarà tutta politica. Anche se era stato il commissario straordinario per la spending review, Carlo Cottarelli, poco dopo il suo insediamento a dire che sarebbe stato necessario «toccare le pensioni d’oro e d’argento ». Sia raffreddando i meccanismi di perequazione, per quanto sostanzialmente non scattino con la deflazione, sia, appunto, con un contributo di solidarietà, diverso però da quelli introdotti dai governi Berlusconi e Monti, e bocciati dalla Corte costituzionale.
Nessun intervento, invece, sul fronte dell’età pensionabile che resterà quella fissata dalla legge Fornero (67 anni) anche perché un cambio di rotta su questo fronte non verrebbe consentito dai “guardiani” di Bruxelles.
Il pacchetto pensioni che entrerà nella prossima legge di Stabilità (il governo dovrà vararla entro il 20 ottobre) è già stato sottoposto alle simulazioni dei tecnici dell’Inps e della Ragioneria dello Stato. Punta da una parte a eliminare strutturalmente il fenomeno dei cosiddetti esodati, o meglio di coloro che perdono il lavoro in età matura e che rischiano di restare senza pensione e senza stipendio per diversi anni, e, dall’altra, ad introdurre un principio di solidarietà, anche generazionale, nel mondo del lavoro.
Va detto però che all’interno dello stesso esecutivo le posizioni non sono esattamente compatte: al ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, che domenica in un’intervista al Corriere della sera ha confermato le linee di intervento, ha replicato ieri il viceministro dell’Economia, Enrico Morando (Pd): «Il contributo di solidarietà sulle pensioni alte mi sembra un argomento che lascerei per un’altra fase». Tace palazzo Chigi (anche perché è stato Poletti a riaprire la discussione), ma nel passato il premier Matteo Renzi non escluse (lo disse, per esempio, davanti alle telecamere di Porta a Porta) un contributo di solidarietà a carico delle pensioni superiori ai 3.500 euro netti al mese (circa 6 mila lordi) calcolati con il metodo retributivo. Ipotesi, peraltro, sostenuta dal consigliere economico del presidente del Consiglio, e parlamentare del Pd, Yoram Gutgeld nel suo libro “Più uguali più ricchi”. Così l’asticella dei 3.500 euro netti al mese di pensione definita con il metodo retributivo sembra effettivamente quella più realistica.
Ieri con Poletti si è schierato il sottosegretario all’Economia Enrico Zanetti (Scelta civica) che in Parlamento ha presentato anche una proposta di legge: «Un contributo di solidarietà può e deve essere chiesto sull’eventuale differenza tra il livello di pensione che viene percepito e quello che viceversa spetterebbe sulla base della capitalizzazione dei contributi versati». L’allarme è invece scattato non solo tra i rappresentanti dei dirigenti d’azienda (sono tra quelli che ricevono le pensioni più ricche) ma anche tra i sindacati che vedrebbero penalizzata quella parte significativa dei propri iscritti, scampata alla riforma Dini, che ha maturato l’assegno pensionistico in base alle retribuzioni degli ultimi dieci anni.
Partita aperta sul fronte politico e sindacale con ricadute dirette su quello tecnico. Perché va definito il livello di reddito pensionistico a partire dal quale intervenire, perché va fissata la percentua- le del prelievo. L’Inps ha comunque elaborato un modello in grado di ricalcolare l’importo con il metodo contributivo per i pensionati del settore privato, mentre qualche problema potrebbe sorgere per quelli del pubblico impiego nel quale i contributi nel passato non venivano sostanzialmente versati.
Le risorse saranno utilizzate soprattutto per sostenere il reddito dei lavoratori maturi che a 4 o 5 anni dalla pensione dovessero perdere il posto. Evitando nuovi esodati. Lo schema prevede che a questi lavoratori, che avrebbero difficoltà a trovare una nuova occupazione, vada dopo i due anni di indennità di disoccupazione (l’Aspi), un assegno di circa 750 euro al mese per il periodo necessario a maturare i requisiti per la pensione di vecchiaia. Una volta in pensione il lavoratore restituirebbe a rate quello che è di fatto un anticipo della pensione. Insomma una sorta di prestito previdenziale. La perdita sarebbe intorno al 5-6 per cento dell’assegno mensile. Un’operazione che allo Stato costerebbe circa 500-600 milioni l’anno. E ci sarebbe anche un contributo da parte delle aziende interessate per evitare che in questo modo possano surrettiziamente riemergere i prepensionamenti. Secondo le simulazioni dei tecnici ogni lavoratore in uscita costerebbe alle aziende 12-15 mila euro e i lavoratori interessati potrebbero essere intorno ai 30-40 mila l’anno.
Accanto al contributo di solidarietà è allo studio il raffreddamento dei meccanismi di adeguamento automatico delle pensioni al costo della vita. Questione marginale in questa fase in cui l’inflazione sta andando in territorio negativo, ma che riemergerebbe una volta che l’inflazione dovesse ritornare sul target europeo del 2 per cento. L’ipotesi più probabile è che si introducano delle fasce di reddito meno sensibili alle dinamiche inflazionistiche con il crescere dell’importo.
E nella legge di Stabilità potrebbe infine essere inserito un tetto alle pensioni calcolate pro rata con il metodo contributivo. In mancanza di un limite, infatti, oggi alcune categorie che possono andare in quiescenza con oltre 70 anni di età (dai professori universitari ai magistrati), riescono a maturare un assegno pensionistico pari al 100 per cento, ma anche oltre, dell’ultima retribuzione.
Roberto Mania
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“NO A TRATTENUTE INDISCRIMINATE COLPIREBBERO I REDDITI MEDI”
Sembra difficile mettere la parola fine a quello che ormai appare come uno dei tormentoni di agosto, l’ipotesi di abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Però Cesare Damiano (Pd), presidente della commissione Lavoro della Camera dei Deputati, ci prova lo stesso: «L’art.18 non verrà toccato. La battaglia estiva del Ncd si è risolta in un pugno di mosche: sia Renzi che Poletti hanno detto che non è questo l’argomento fondamentale. Anche perché si tratta di un falso problema: le aziende non chiedono di ridurre le tutele dei lavoratori, ma di abbassare il costo del lavoro».
Il nuovo contratto a tutele crescenti, unito ai contratti a termine, potrebbe tradursi in un precariato lungo 6 anni.
«Per le nuove assunzioni si può stabilire che il contratto a tutele crescenti e i contratti a termine siano alternativi: sarà l’imprenditore a scegliere la strada più conveniente. Per chi assume c’è un doppio vantaggio: nella proposta del Pd si parte da una retribuzione del 65% a parità di mansione, e poi si riducono contributi e Irap, se il lavoratore viene confermato, altrimenti il periodo di prova viene considerato un normale contratto a termine, molto più costoso».
L’entrata nel mercato del lavoro per i giovani è difficile anche per la mancanza di un’adeguata rete di agenzie per l’impiego.
«I nostri centri per l’impiego, che trattano il 2/3% delle assunzioni, hanno 9.000 addetti, di cui 2.000 precari. In Germania gli addetti sono 130.000. Vige il passaparola, il sistema è inceppato. Sarebbe già un passo avanti se le risorse della Garanzia Giovani venissero date alle agenzie private o pubbliche solo in presenza di un’offerta di lavoro concreta, oppure agli imprenditori che stabilizzano i lavoratori».
Il possibile intervento della riforma sulle “pensioni d’oro” è già molto contestato.
Quale sarà la soglia?
«Potrebbe essere quella individuata dal governo Letta: 90.000 euro lordi. Questa cifra può anche essere la somma di più pensioni percepite. Superata tale soglia si può intervenire con un prelievo sulla parte eccedente, a condizione che le risorse risparmiate vadano o a migliorare le pensioni più basse o a risolvere il problema dei cosiddetti esodati».
Si discute in alternativa di una forma di perequazione tra pensioni con il sistema retributivo e pensioni con il contributivo.
«Sono assolutamente contrario al prelievo indiscriminato sulle pensioni per cifre non meglio precisate, per il solo fatto che sono state definite con il sistema retributivo. C’è il rischio che così si vadano a colpire le pensioni medie, che fanno veramente gola, anche perché dalle pensioni d’oro si ricaverà poco, il loro numero è esiguo. Ci sono altre distorsioni: perché non s’interviene sulla norma introdotta dalla legge Fornero che permette di calcolare contributi oltre le 52 settimane all’anno per 40 anni per chi lavora anche dopo i 65 anni? Così si va oltre il 130% dell’ultimo stipendio ».
Rosaria Amato

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DAL CORRIERE DELLA SERA
IL CONTRATTO TRADITO
L’ipotesi governativa di toccare le pensioni cosiddette alte per aiutare gli esodati — i lavoratori che, in forza di una legge, non hanno più un lavoro, ma neppure la pensione — ferma l’orologio delle riforme alla redistribuzione della ricchezza (si toglie a qualcuno per dare ad altri) già praticata dai governi precedenti e che ha portato l’economia nazionale nella depressione della crescita zero.
Le previdenza è una sorta di contratto che il lavoratore stipula con lo Stato, in base al quale, dietro il pagamento di contributi durante gli anni lavorativi, il cittadino riceverà una pensione. L’assistenza è l’aiuto che lo Stato (sociale) fornisce ai meno abbienti attraverso la fiscalità generale. Il nostro Stato — che fa volentieri confusione fra assistenza e previdenza — supplisce alle proprie carenze sociali e finanziarie con la redistribuzione della ricchezza. Questa — che meglio sarebbe definire distruzione di ricchezza — si traduce in una doppia tassazione per chi ha già ha pagato le tasse sui propri guadagni e finisce così col (ri)pagarle, in modo surrettizio, con la sottrazione da parte dello Stato di una parte ulteriore di quegli stessi guadagni. Se, dunque, lo Stato tradisce, o mostra di voler tradire, il contratto previdenziale, non c’è più certezza del diritto, il cittadino non è in grado di programmare la propria vita, smette di spendere, gli investimenti si fermano, lo sviluppo si arresta. Così come ha prodotto la fine del socialismo reale, la forzosa redistribuzione della ricchezza minaccia, da noi, di uccidere l’economia libera.
L’idea di prelevare dalle pensioni cosiddette alte le risorse per aiutare i meno fortunati — facendo pagare l’assistenza a chi ha già pagato previdenza e tasse — è un trucco per supplire ai costi e alle carenze di uno Stato sociale che non aiuta i meno abbienti, ma fa pubblicità a se stesso e produce consenso a chi governa. Il trucco è, a sua volta, reso necessario dalla carenza di risorse, dall’esigenza di reperirle e dalla promessa di riforme che chi ne parla non è, poi, in grado o non ha la volontà politica di fare.
È il caso del governo Renzi — che si ripromette di essere riformista — e si rivela tutt’altro che tale. Esso, che piaccia o no, è uguale ai governi che lo hanno preceduto. Non fa, come non hanno fatto quelli, le riforme, soprattutto quella fiscale e amministrativa, che snellirebbero lo Stato e gli consentirebbero di spendere meglio le risorse di cui dispone. Un’abile e opportuna operazione di marketing a favore di se stesso, diffusa da un sistema informativo inadeguato, ha promosso il governo Renzi a «ultima spiaggia» contro l’eventualità di elezioni anticipate. Che nessuno pare volere. Senza che i cittadini-elettori manco se ne accorgessero, l’Italia è passata, così, dalla condizione di democrazia rappresentativa a quella di democrazia «guidata» da una tecnocrazia.
L’Italia rimane — malgrado l’involuzione istituzionale — un Paese libero. Ciò non toglie, peraltro, che si sia concretata in parte quella rivoluzione sociale, fallendola, che la sinistra filosovietica avrebbe voluto fare subito dopo la fine della guerra. Rivoluzione che la stessa Costituzione in qualche modo ha favorito con le sue ambiguità.
Ancorché condizionata da una burocrazia eccessiva e criminalizzata da una diffusa cultura politica statalista e dirigista, l’economia di mercato è da noi (ancora) relativamente in buona salute. Ma non è neppure il caso di ignorare certi sintomi.
Piero Ostellino

DA LA STAMPA
DALLE PENSIONI ALLA MOBILITÀ LA RIFORMA MADIA È LEGGE –
Ha già fatto una riunione ad hoc. Entro fine anno, ma spera già ben prima, il ministro della Pubblica amministrazione Marianna Madia vuole riuscire a licenziare i decreti attuativi del decreto che porta il suo nome, da oggi ufficialmente legge. L’ha approvato lo scorso 7 agosto il Parlamento, tra le polemiche per l’esclusione dello sblocco di quattromila pensionamenti nella scuola e l’aiuto della questione di fiducia posta dal governo. Ora lo stop al trattenimento in servizio dopo aver raggiunto i requisiti per la pensione (da fine ottobre), il via libera alla possibilità di trasferire un dipendente pubblico nel raggio di 50 chilometri, purché non abbia figli sotto i tre anni o usufruisca della legge 104 per assistere disabili, gli oltre mille posti da vigili del fuoco, e un turn over più flessibile, con il via libera ad assunzioni per non più del 20% delle spese sostenute per chi è uscito da quella amministrazione (percentuale che diventerà del 40 nel 2015 e del 100 nel 2018) è legge dello Stato.
«Il decreto Madia è legge», ha twittato appena approvato dalla Camera il premier Matteo Renzi, «adesso sotto con la delega e i decreti attuativi». Sui decreti attuativi, appunto, sta lavorando la Madia: volutamente ha cercato di limitare il numero, perché al più presto possano essere fatti e la legge essere completamente operativa, visto che troppo spesso in passato i decreti attuativi hanno tardato ad arrivare. Mentre sulla legge delega, considerato dal premier «cuore» dell’operazione di rinnovamento, sarà impegnata da settembre la Commissione affari costituzionali del Senato: l’obiettivo è riuscire ad approvarla entro l’anno.
Per intanto, le regole scritte nel decreto sono operative: ad esempio, dalla fine di ottobre qualunque dipendente pubblico abbia i requisiti per la pensione lascia il posto (finora poteva fermarsi ancora due anni), norma che solo per i magistrati si applicherà più avanti, da inizio 2016. Per loro, però, si introduce una stretta nella possibilità di avere un’aspettativa per lavorare con la Pubblica amministrazione: chi ha incarichi di diretta collaborazione, non potrà più ricorrere all’aspettativa, dovrà andare fuori ruolo. Ancora, le amministrazioni potranno mandare in pensione i dirigenti di 62 anni, purché abbiano anzianità massima. E per i membri dei Cda di società partecipate che lavorano in maniera praticamente esclusiva con la Pa, scatta un taglio della remunerazione del 20%. Caleranno anche le somme che le imprese versano alle Camere di commercio, ma gradualmente: ci sarà un taglio del 35% nel 2015, del 40% nel 2016 e un dimezzamento nel 2017.
Francesca Schianchi


DAL SOLE 24 ORE
RIFORMA PENSIONI, TRIS DI INTERVENTI SUL TAVOLO DEL GOVERNO –
La soluzione del rebus pensioni potrebbe richiedere più tempo del previsto. Nonostante la fuga in avanti del ministro del Lavoro, Giuliano Poletti - che in un’intervista al Corriere della sera di domenica si è dichiarato «favorevole a un intervento sulle pensioni alte a sostegno di quei lavoratori che altrimenti rischiano di essere esodati» – la trattativa all’interno del Governo non è ancora partita. Come confermato ieri dal viceministro all’Economia, Enrico Morando, che ha addirittura escluso un intervento in materia previdenziale e ha invitato a «concentrarsi sulle vere riforme che servono al paese: lavoro, giustizia, pubblica amministrazione, fisco». A ogni modo, al momento le ipotesi sul tavolo sembrano almeno tre: contributo di solidarietà sugli assegni oltre una certa soglia; ricalcolo con contributivo pieno dei trattamenti misti già in pagamento; prestito pensionistico sulla falsariga della "proposta Giovannini". E l’una non per forza esclude l’altra. Anzi.
Partiamo dal contributo di solidarietà che è una delle due soluzioni citate esplicitamente da Poletti. In realtà, un prelievo forzoso sugli assegni più elevati già esiste. Ed è quello introdotto, con la legge di stabilità 2014, dall’esecutivo Letta per le pensioni oltre i 90mila euro lordi, dopo la bocciatura della Consulta per una misura simile voluta da Giulio Tremonti e Silvio Berlusconi nel 2011 e confermata da Mario Monti. Attualmente, infatti, chi percepisce tra 14 e 20 volte il trattamento minimo Inps (cioè tra 7 e 10mila euro lordi mensili) deve rinunciare al 6% dell’importo, che sale al 12% per chi si assesta tra 20 e 30 volte il minimo (pari a 14.800 euro) e al 18% per chi supera tale soglia.
Ora il governo Renzi potrebbe decidere di rendere l’intervento meno simbolico e più redistributivo, abbassando l’asticella fino a 3.000-3.500 euro. Del resto, una proposta in tal senso risale a un anno fa ed è targata Yoram Gutgeld. Il consigliere economico di Renzi pensa infatti a un taglio del 10% e a un blocco dell’indicizzazione per gli assegni oltre i 3.500 euro lordi calcolati secondo il metodo retributivo.
In alternativa si potrebbe pensare a una stretta più generalizzata sui trattamenti già in corso di erogazione e calcolati secondo il metodo retributivo o misto. Come proposto nello studio pubblicato a gennaio su Lavoce.info da Tito Boeri, Fabrizio Patriarca e Stefano Patriarca, che punta a decurtare gli assegni retributivi di un tot rispetto allo scostamento da pensioni analoghe calcolate con il contributivo. Più nel dettaglio, i tre economisti pensano a un contributo pari al 20% dello squilibrio sulle pensioni tra 2 e 3mila euro, al 30% tra 3 e 5 mila euro e al 50% oltre tale livello.
Per passare il vaglio della Consulta, qualunque sia la ricetta adottata, i risparmi prodotti andranno lasciati all’interno del comparto previdenziale. E veniamo così alla terza ipotesi citata all’inizio: utilizzare le risorse recuperate per risolvere una volta per tutte la grana esodati. Magari rispolverando il prestito pensionistico caro all’ex ministro del Lavoro, Enrico Giovannini.
Fermo restando che la sede per decidere sarà la prossima legge di stabilità non è così sicuro che l’esecutivo alla fine decida di rimettere mano alle pensioni. Il clima politico non è così favorevole a un’eventualità del genere. Tanto nella maggioranza, con Cesare Damiano (Pd) che avverte di non scendere sotto la soglia dei 90mila euro annui, Pietro Ichino (Sc) che consiglia di intervenire solo dove ci sono i margini e Nunzia De Girolamo (Ncd) che chiede di non toccarle. Quanto nell’opposizione, con Renato Brunetta (Fi) che sottolinea come neppure la Bce ci inviti a un intervento simile.
Eu. B.

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CONTI DA RIFARE PER 15 MILIONI DI ASSEGNI
Potrebbero essere circa 15 milioni gli assegni interessati da un ricalcolo della pensione secondo il metodo contributivo al posto del retributivo. Se venissero coinvolti anche gli assegni "misti" la platea potrebbe salire a 16,5 milioni circa. Infatti secondo i dati contenuti nel Rapporto annuale 2013 dell’Inps sono 12,7 milioni le pensioni liquidate con il metodo retributivo del settore privato, la quasi totalità dei 14,2 milioni scarsi iscritti alla gestione privata dell’istituto di previdenza. A questi vanno aggiunti i pensionati pubblici ex Inpdap e i pochi dell’ex Enpals (sport professionistico e spettacolo). Per inciso vale la pena sottolineare che i pensionati con il contributivo puro per ora sono un’esigua minoranza: nella gestione separata Inps se ne contano solo 356.280, oltre 1.065.164 che beneficiano del sistema misto.
Le pensioni complessivamente liquidate in Italia ammontano a quasi 23 milioni e mezzo, di cui oltre 21 milioni gestite dall’Inps. I pensionati che fanno capo all’istituto nazionale di previdenza sono invece 15.757.626 milioni, perché in diversi casi sono pagate più pensioni alla stessa persona. A fronte di una spesa complessiva lorda di 265,9 miliardi di euro, l’importo medio del reddito mensile è di 1.297 euro.
Questi numeri, però, da soli non sono sufficienti per delineare il quadro previdenziale italiano che si basa su diverse tipologie di prestazioni. I trattamenti erogati dall’Inps si dividono in due grandi categorie: gli assegni pensionistici di natura previdenziale, in cui rientrano le pensioni di vecchiaia, anzianità, anticipata e quelle ai superstiti e gli assegni assistenziali, tra cui si contano pensioni e assegni sociali e invalidità civile. I primi sono alimentati dai contributi versati dai lavoratori e dalle aziende nel corso dell’attività lavorativa, i secondi (che sono il 17% del totale erogato dall’Inps) sono interamente a carico dello Stato in quanto non si basano su un rapporto assicurativo.
Più in dettaglio, dei 15,7 milioni di pensionati dell’istituto di previdenza nazionale 8,6 ricevono un assegno di vecchiaia o anzianità o anticipato; poco più di mezzo milione è titolare di assegno di invalidità o inabilità; 1,4 milioni sono i superstiti; 1,4 beneficiano di trattamenti assistenziali; 1,5 milioni di trattamenti previdenziali più assistenziali e 2 milioni di trattamenti previdenziali di tipo diverso. Inoltre, quale effetto del fatto che alcune persone percepiscono più assegni, la distribuzione del reddito medio mensile pensionistico è diversa dalla suddivisione delle singole pensioni per importo.
Nonostante ciò oltre 2,1 milioni di persone percepisce complessivamente meno di 500 euro al mese e 4,7 milioni incassano tra 500 e 1000 euro. Ciò significa che il 43% dei pensionati, che si colloca nella fascia bassa di importi, assorbe solo un quindi della spesa previdenziale complessiva, mentre il 15,7% che incassa complessivamente più di 2mila euro al mese genera il 35,4% della spesa totale.
Un eventuale ricalcolo con il sistema contributivo delle pensioni ora erogate con quello retributivo richiederebbe un grande sforzo, tenuto conto dei numeri in gioco, mentre gli effetti concreti sarebbero tutti da verificare a fronte del fatto che alcune persone percepiscono più trattamenti e che forse potrebbero essere introdotti dei correttivi a tutela di determinate situazioni o di importi ridotti.
Matteo Prioschi
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CON IL CONTRIBUTIVO IMPORTO TAGLIATO IN MEDIA DI UN TERZO
Il ricalcolo delle pensioni con il metodo contributivo determina in via generale una riduzione dell’assegno, ma in alcuni casi i risultati possono essere diversi da quanto si potrebbe immaginare. L’impressione comune, infatti, è che un’operazione del genere andrebbe a colpire in maniera più significativa le pensioni di livello elevato. In alcuni casi, però, ciò potrebbe non verificarsi. È quanto emerge da una serie di proiezioni elaborate su alcuni casi tipo.
Sono stati presi come riferimento tre dipendenti di sesso maschile iscritti per la prima volta all’Inps nel 1975 e pensionati il 1° gennaio 2011 all’età di 62 anni. Per tutti si è ipotizzato una retribuzione iniziale pari a circa 15.000 euro in valore reale e tre diversi livelli retributivi al pensionamento (30.000, 60.000, 120.000 euro, sempre in valore reale). Sono state inoltre ipotizzate tre diverse modalità di carriera (costante, ritardata, accelerata), in relazione all’evoluzione della retribuzione percepita dal primo all’ultimo livello. Le prestazioni maturate al pensionamento sono state determinate esclusivamente sulla base del metodo retributivo (al 1° gennaio 2011, infatti, la riforma Fornero, che ha introdotto per tutti il sistema contributivo, non era stata ancora emanata).
Successivamente si è proceduto al ricalcolo delle prestazioni con il metodo contributivo, applicando la metodologia stabilita nei confronti dei lavoratori che, nei casi consentiti, hanno la possibilità di optare per la prestazione calcolata sulla base di tale metodo. Dagli esempi emerge chiaramente come l’evoluzione retributiva influenzi in maniera determinante il risultato finale. Al crescere della pensione, infatti, non appare scontato che il ricalcolo determini un importo più contenuto. In taluni casi la riduzione percentuale della pensione maturata è minore per i livelli di prestazione più elevati. Anzi, nel caso di carriera accelerata, il ricalcolo della pensione con il metodo contributivo (non ipotizzando l’applicazione del massimale di retribuzione pensionabile e contributiva stabilito dall’Inps per tutti coloro che per la prima volta sono stati iscritti dal 1° gennaio 1996) determina, per il lavoratore con la massima pensione, una prestazione finale più elevata rispetto a quella calcolata con il metodo retributivo.
L’effetto è principalmente dovuto alle modalità di applicazione stabilite dal metodo retributivo, che definisce, per ciascun anno di contribuzione, un rendimento più contenuto al crescere della retribuzione (il 2,0% si riduce infatti gradualmente sino allo 0,9% per livelli retributivi più elevati). Con il metodo contributivo, invece, l’aliquota riconosciuta nell’anno viene applicata in maniera su tutta la retribuzione, senza alcuna gradualità.
Un ulteriore elemento che influenza il risultato finale è l’età di pensionamento. I risultati contenuti nello schema sono destinati ad evidenziare riduzioni più elevate in caso di pensionamenti anticipati. Viceversa riduzioni più contenute (o incrementi più elevati) in caso di pensionamenti posticipati.
Claudio Pinna

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DA LIBERO
IL PENSIONANTE D’ORO –
Con una pensione d’oro, di quelle da 3 mila euro netti al mese che Matteo Renzi vorrebbe tagliare, le vacanze del premier e della sua famiglia sarebbero durate al massimo lo spazio di un week end. Ma è un rischio che naturalmente Renzi non corre: è giovane, ha ancora davanti una vita di lavoro, e diventerà pensionato (d’oro o di latta, chissà) fra molti lustri. Da sabato scorso però il presidente del Consiglio italiano è ufficialmente un pensionante d’oro. Come si è appreso dai servizi fotografici dominicali che lo ritraevano a una messa in pineta con la famiglia al gran completo, i Renzi hanno iniziato le loro vacanze a Forte dei Marmi, il posto più esclusivo della costa toscana. Su quelle spiagge un tempo trovavi l’Avvocato Gianni Agnelli, oggi ti imbatti in una Daniela Santanchè o un Flavio Briatore, in un Andrea Pirlo o in una Michelle Hunzinker. I Renzi per ritrovare qualche giorno di pace hanno scelto come buen retiro un hotel 4 stelle superior, il Villa Roma Imperiale. Secondo i recensori di Tripadvisor è l’hotel numero 1 su 43 recensiti a Forte dei Marmi. Dalle foto si capisce bene: suite da sogno, camere doppie con romantici letti a baldacchino, colazioni pantagrueliche con frutta esotica e ogni ben di Dio, una piscina deliziosa, giardini e perfino una pineta con divani e poltrone che ti fanno sentire un pascià. Un paradiso. Naturalmente non a portata di qualsiasi portafoglio. Abbiamo provato a riservare una stanza per l’ultima settimana di agosto. Una camera doppia «classic» costa 700 euro a notte. Se paghi subito via Internet ti fanno lo sconto: 665 euro a notte, ma non puoi più cambiare idea né prenotazione, perchè è una «offerta speciale non rimborsabile». Se vuoi il letto a baldacchino il prezzo sale: camera doppia romantic a 800 euro a notte. C’è un terzo tipo di matrimoniale, se ti serve spazio per lavorare in camera: è di 30 metri quadrati, classificata come «Camera prime deluxe», e costa 900 euro a notte. C’è un letto matrimoniale in ognuna di queste: puoi dormirci solo in due. Per i Renzi che sono in cinque ne servono almeno due a notte: una matrimoniale e una tripla, anche solo aggiungendo un letto a una doppia. Ogni notte vale 1.500-1.600 euro per le due camere. Puoi tentare di fare stare tutti dentro una suite base o deluxe: di partenza hanno un letto matrimoniale e un divano letto matrimoniale e fanno quattro posti letto, ma sono abbastanza grandi da rendere possibile l’aggiunta di un lettino per il quinto ospite. Non è che si risparmia molto: la suite costa 1.500 euro a notte (scontata a 1.425 euro impegnandoti prima on line, ma non è rimborsabile), e la «deluxe suite» costa 1.700 euro a notte (1.615 con lo sconto on line). I Renzi sono lì da sabato scorso: hanno già trascorso tre notti. Valevano come un mese e mezzo di quelle pensioni d’oro che il pensionante d’oro ora vorrebbe tagliare «per una ragione di equità». Quei pensionati sono così ricchi che solo rinunciando a ben quattro mesi di quella pensione da 3 mila euro netti potrebbero permettersi una vacanza di una settimana a Forte dei Marmi come quella della famiglia Renzi. Certo, se poi debbono mettere insieme anche un pranzo e una cena ogni giorno, e pagarsi l’ombrellone e qualche divertimento, rischiano di prendere il volo cinque-sei mesi di quella presunta pensione d’oro.
Naturalmente non è noto se al premier verrà presentato un conto identico a quello chiesto a noi comuni pensionanti. Non sappiamo se la vacanza sarà a prezzo pieno, se è offerta da parenti o amici, se ci sarà uno sconto più o meno generoso. Non lo sappiamo, ma sicuramente lo sapremo: perchè Renzi fa il politico al massimo livello, e anche uno sconto più o meno consistente sarebbe un «dono» o addirittura un finanziamento a un uomo politico, che quindi dovrebbe dichiararlo. Dipendenti e dirigenti della presidenza del Consiglio dei ministri sono tenuti dal codice etico e dalle norme anti-corruzione a rifiutare qualsiasi dono diretto o indiretto (come uno sconto) di valore superiore a 100 euro. Regola a cui ovviamente deve attenersi anche il presidente del Consiglio dei ministri. E dovendo rifiutare lo sconto, il premier si è concesso un bel salasso. Il suo stipendio (pagato dagli italiani) ammonta infatti a 114.796,68 euro lordi annuali, che netti diventano 65.885,84 euro. Meno di 6mila euro al mese in dodici mensilità. Per una vacanza di una settimana in cinque all’hotel Villa Roma imperiale di Forte dei Marmi servono quindi due mensilità di stipendio da presidente del Consiglio (vitto e divertimenti esclusi).
Naturalmente libero Renzi di disporre della sua busta paga come meglio crede. Sorprende più che altro vedere protagonista di una vacanzina da nababbo proprio l’uomo politico che più di ogni altro ha fatto una vera e propria bandiera del pauperismo, disboscando gli stipendi d’oro nel pubblico impiego. Fa impressione pensare anche che il pensionante d’oro si metta al lavoro in quei gazebo per disboscare quelle che lui ritiene pensioni d’oro: da 3 mila euro netti al mese in su. Secondo le dichiarazioni ufficiali dei suoi ministri e collaboratori sono a rischio anche pensioni fra 2 e 3 mila euro netti, che potrebbero essere oggetto di un prelievo straordinario. Che sia questione di equità non dovere aspettare un mese la pensione utile a passare un week end alla Renzi a Forte dei Marmi, è vero. Ma per risolvere questo problema di iniquità, bisognerebbe aumentarle quelle pensioni, non ridurle. Perchè non sono quelli i tagli alla spesa che servono alla crescita dell’Italia. Non servono nemmeno a liberare risorse: saranno utilizzati per coprire altra spesa pubblica, per alimentare ancora una volta clientele e accarezzare la pancia ad altre categorie. Per questo consiglieremmo al pensionante d’oro di lasciare stare le pensioni altrui. Si goda le vacanze, che meritano. Non ne presenti il conto poi agli italiani.
Alcune immagini di repertorio del «Villa Roma Imperiale» di Forte dei Marmi dove sta soggiornando il premier Matteo Renzi con la famiglia. «Una armonia perfetta fra lusso e semplicità si legge nell’home page del sito una calda ospitalità, una ambientazione particolare e ricca di piacevoli dettagli sono il segreto del fascino di Villa Roma Imperiale, una romantica villa 4 stelle superior di 31 camere, situata nella zona più esclusiva di Forte dei Marmi».
zo e una cena ogni giorno, e pagarsi l’ombrellone e qualche divertimento, rischiano di prendere il volo cinque-sei mesi di quella presunta pensione d’oro.
Naturalmente non è noto se al premier verrà presentato un conto identico a quello chiesto a noi comuni pensionanti. Non sappiamo se la vacanza sarà a prezzo pieno, se è offerta da parenti o amici, se ci sarà uno sconto più o meno generoso. Non lo sappiamo, ma sicuramente lo sapremo: perchè Renzi fa il politico al massimo livello, e anche uno sconto più o meno consistente sarebbe un «dono» o addirittura un finanziamento a un uomo politico, che quindi dovrebbe dichiararlo. Dipendenti e dirigenti della presidenza del Consiglio dei ministri sono tenuti dal codice etico e dalle norme anti-corruzione a rifiutare qualsiasi dono diretto o indiretto (come uno sconto) di valore superiore a 100 euro. Regola a cui ovviamente deve attenersi anche il presidente del Consiglio dei ministri. E dovendo rifiutare lo sconto, il premier si è concesso un bel salasso. Il suo stipendio (pagato dagli italiani) ammonta infatti a 114.796,68 euro lordi annuali, che netti diventano 65.885,84 euro. Menodi6milaeuroalmesein dodici mensilità. Per una vacanza di una settimana in cinque all’hotel Villa Roma imperiale di Forte dei Marmi servono quindi due mensilità di stipendio da presidente del Consiglio (vitto e divertimenti esclusi).
Naturalmente libero Renzi di disporre della sua busta paga come meglio crede. Sorprende più che altro vedere protagonista di una vacanzina da nababbo proprio l’uomo politico che più di ogni altro ha fatto una vera e propria bandiera del pauperismo, disboscando gli stipendi d’oro nel pubblico impiego. Fa impressione pensare anche che il pensionante d’oro si metta al lavoro in quei gazebo per disboscare quelle che lui ritiene pensioni d’oro: da 3 mila euro netti al mese in su. Secondo le dichiarazioni ufficiali dei suoi ministri e collaboratori sono a rischio anche pensioni fra 2 e 3 mila euro netti, che potrebbero essere oggetto di un prelievo straordinario. Che sia questione di equità non dovere aspettare un mese la pensione utile a passare un week end alla Renzi a Forte dei Marmi, è vero. Ma per risolvere questo problema di iniquità, bisognerebbe aumentarle quelle pensioni, non ridurle. Perchè non sono quelli i tagli alla spesa che servono alla crescita dell’Italia. Non servono nemmeno a liberare risorse: saranno utilizzati per coprire altra spesa pubblica, per alimentare ancora una volta clientele e accarezzare la pancia ad altre categorie. Per questo consiglieremmo al pensionante d’oro di lasciare stare le pensioni altrui. Si goda le vacanze, che meritano. Non ne presenti il conto poi agli italiani.
Franco Bechis