Gian Antonio Stella, Sette 15/8/2014, 15 agosto 2014
RETTORE
«Allora, monsieur Verdoux, dovete ammettere che il delitto non paga». «No. Non quello al dettaglio. Per avere successo in qualsiasi cosa bisogna essere organizzati… Guerre, conflitti, tutti affari… Un omicidio è delinquenza, un milione è eroismo. Il numero legalizza, mio caro amico…». Viene in mente quella formidabile scena di Monsieur Verdoux, dove Charlie Chaplin sdraiato nella sua cella non tenta neppure di spiegare perché ha ammazzato un po’ di persone, nel leggere l’indignatissima censura del rettore della Sapienza, Luigi Frati, contro l’iniziativa di un docente di invitare a un seminario sulla gestione del panico Francesco Schettino. Che l’idea di dare spazio a quel simbolo mondiale della vanità, del bullismo e della faciloneria disastrosa fosse non solo scellerata ma insulsa, ovvio, è fuori discussione. Ma da che pulpito arriva la predica! Da che pulpito! Ha spiegato dunque il rettore, definendosi “adirato”, che quella di «invitare un rinviato a giudizio per reati così gravi all’università che è una comunità educante» è stata «una scelta indegna e inopportuna» perché «Schettino è un personaggio negativo, responsabile della morte di 30 persone». Dopo di che ha aggiunto: «Sottoporrò la questione al Senato accademico, ma per quanto mi riguarda un personaggio simile non dovrebbe proprio partecipare a nulla, figuriamoci se invitato». Ma come: si scandalizza lui? Non fu lui, solo cinque anni fa, ad affidare una lectio magistralis nell’Aula Magna a un uomo come Muammar Gheddafi che portava il peso, in decenni di dittatura spietata, di migliaia di omicidi? Non fu lui che alla sfilata di “amazzoni”, le prosperose body guard del rais libico, scherzò con accento romanesco: «Le abbiamo apprezzate molto! Purtroppo c’è mi’ moje...»? Se è stato demenziale invitare Schettino a parlare di gestione del panico, cosa dire dell’invito a Gheddafi perché tenesse una lectio sulla democrazia? Lo sbobinato letterale del cialtrone da quarant’anni al potere a Tripoli senza l’impiccio delle elezioni resta indimenticabile: «Democrazia è una parola araba che è stata letta in latino. Democrazia: demos vuol dire popolo. Crazi in arabo vuol dire sedia. Cioè il popolo si vuole sedere sulle sedie. Questa è l’origine etimologica della parola. Se noi ci troviamo in questa sala siamo il popolo, seduti su delle sedie, questa andrebbe chiamata democrazia, cioè il popolo si siede su delle sedie. Invece se noi prendessimo questo popolo e lo facessimo uscire fuori, se avessimo invece preso dieci persone e le avessimo fatte sedere qua, scelte dalla gente che stava fuori, e loro invece sono seduti qua, quei dieci, questa non sarebbe da chiamarsi democrazia. Questa si chiamerebbe diecicrazia. Cioè dieci su delle sedie. Non è il popolo a sedersi sulle sedie, questa non è la democrazia. Finché tutto il popolo non avrà la possibilità di sedersi tutto quanto sulle sedie, non ci sarà ancora democrazia».
In africa? Nessun dittatore. Ce la ricordiamo ancora la faccia infastidita del rettore davanti alla domanda di uno studente che disturbava l’atmosfera di spagnolesca cortesia verso il despota: «Come vengono rispettati, in Libia, i diritti degli emigranti?». L’interprete: «Quali diritti?». «I loro diritti». «Quali diritti?». «I diritti!», gridavano in sala: «I diritti politici». L’interprete si chinò all’orecchio del Rais, che si scosse: «Quali diritti?». E si lanciò a spiegare che, certo, la domanda faceva onore a chi l’aveva fatta ma era un po’ ingenua: «Gli africani sono degli affamati, non dei politici, gente che cerca cibo». E i dittatori da cui fuggono? «Non ci sono dittatori, in Africa… La dittatura c’è quando una classe sta sopra un’altra. Se sono tutti poveri…». E il rettore, in nome della “comunità educante”, si indigna per Schettino? Ma ci faccia il piacere!