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 2014  agosto 19 Martedì calendario

GAME, SET E JIMBO


[Jimmy Connors]

Non era il tennista ideale, Jimmy Connors, almeno dal punto di vista tecnico: fisico poco imponente, servizio approssimativo, diritto tutto fuorché impeccabile. L’unico gran colpo, quel rovescio a due mani. Quindi l’aver conquistato 8 tornei del Grande Slam (5 Open degli Stati Uniti, 2 Wimbledon e un Open d’Australia), l’aver trascorso 160 settimane consecutive al primo posto della classifica Atp tra il 1974 e il 77, e l’aver stabilito il record di tornei vinti (109 contro i 77 di McEnroe, i 79 di Federer e i 64 di Nadal) sono un monumento a una volontà implacabile. A volte, addirittura divorante.
Sta in quel carattere la ragione della sua più strabiliante impresa, restare fra i primi 10 del mondo per 16 anni. In un’epoca in cui le carriere tennistiche si esauriscono in una mezza dozzina di stagioni, “Jimbo” – che il giorno del 39° compleanno superò il turno agli U.S. Open battendo Aaron Krickstein, di 15 anni più giovane, in 4 ore e 41 minuti appare sempre più un mostro. Per natura oppure per formazione, o magari per entrambe.
Nato a Belleville, Illinois, in una famiglia di colletti blu, James Scott Connors detto Jimmy detto Jimbo, che oggi ha 61 anni, è entrato nel circuito mentre il tennis si scrollava di dosso molte leziosità da country club: caracollava combattivo in campo, urlava, insultava, puntava il dito. Le sue invettive infrangevano i limiti del buon gusto (nessuno come lui sapeva esaltare il potenziale fallico di una racchetta), e parliamo di decenni fa. Da allora, i demoni si sono quietati e resta un’incomparabile intelligenza tennistica.
Nel 2013 Connors è stato ingaggiato per trasmettere un po’ di quella mentalità a Maria Sharapova, allora al terzo posto nella classifica Wta, che vedeva (e vede) in Serena Williams un’implacabile nemesi: contro di lei ha perso 16 incontri su 18. L’allieva Maria ha perso il primo match all’Open di Cincinnati, e Connors ha twittato: «I trionfi iniziano con un passo falso, domani ci si rimette al lavoro». No. Dopo 34 giorni, la russa l’ha licenziato e lui, rivelando un lato di sé sconosciuto anche per chi lo conosce dagli esordi, ha twittato dalla California: «Di nuovo a casa, a Santa Barbara: famiglia, cani, cucina casalinga. Ah, e vodka on the rocks».
Maria Sharapova aveva ottenuto 4 vittorie nel Grande Slam, ma Serena per lei restava un incubo. Era convinto di poterla aiutare?
«Molti giocatori, a un certo punto, cercano qualcuno che dia loro la spinta necessaria a un salto di qualità. Da giovane lavoravo con Pancho Segura; a fine Anni 70, in una fase di stanca della carriera, sono tornato da lui. Per una come Maria non è un’operazione disperata: le occorre un ulteriore appiglio a cui aggrapparsi, un qualcosa in più. Perché, sia chiaro, non le manca nulla. Mi piace la sua mentalità, l’importanza che attribuisce a qualsiasi cosa possa farla migliorare. Da tutto quello che ha, e lo fa vedere senza paura. Capita raramente».
Lei ha allenato Andy Roddick dal 2006 al 2008. Nella sua autobiografia, The Outsider, lei ha scritto che, per quanto brillante sul piano tecnico, Roddick non faceva progressi in partita, quindi lo ha lasciato.
«È difficile lavorare con chi ha già vinto dei tornei del Grande Slam. Andy doveva usarmi in modo diverso: la conversazione, per esempio, è perfetta per analizzare il tennis e le situazioni in partita. Da ragazzo sfinivo Pancho Segura a furia di domande su posizioni, punteggi e movimenti in campo; su come gestire una situazione quando si è in vantaggio e quando si è sotto; cosa faceva lui e perché, come mai in un incontro con Pancho Gonzales ha fatto una cosa e contro Jack Kramer un’altra... Alla fine si è stufato di me».
Una curiosità rara, nel mondo del tennis.
«Ero curioso di tutto, un ragazzino che cercava di arrampicarsi in vetta. Andy e Maria, quando abbiamo lavorato insieme, in cima c’erano già».
La prendevano in giro perché era mamma Gloria, maestra di tennis, ad allenarla... Ma le donne hanno avuto grande importanza durante tutta la sua vita.
«Sì. A cominciare dalla nonna fino a mia moglie, passando per mia madre, averle intorno e passare il tempo con loro era normale; e il tennis mi ha portato a trascorrere molto tempo con loro. A mio padre “Big Jim” Connors, addetto al pedaggio di un ponte, invece lo sport interessava poco. A molti sembrerebbe più normale se ad allenarmi e a esercitare tanta influenza fosse stato un uomo: ma io ero un outsider, uno diverso. Da giovane queste cose pesano. Poi invecchi e pensi: “Va bene, dite pure quel che volete”. Dov’è scritto che un padre può insegnare a giocare a tennis, e Gloria Connors no? E stata lei a insegnarmi a battere gli uomini».
È vero che trova il tennis di oggi “bidimensionale”?
«No, a una sola dimensione. A parte pochi, è diventato un gioco di pura potenza con troppa enfasi sul servizio: la varietà, la fantasia, il “plus” che avevano introdotto campioni come Pete Sampras e Ilie Nastase, John McEnroe e Vitas Gerulaitis, Pancho Gonzales e Rod Laver, è scomparso. I tennisti di oggi sono bravi ma sembra giochino tutti alla stessa maniera! La gente veniva a vedere McEnroe che tirava una volée o Nastase che giocava un pallonetto in topspin, così l’indomani potevano provarli e dire: “L’ho visto fare a McEnroe e lo faccio anch’io”. Questo li avvicinava al tennis, l’emozione di vederlo giocare e di giocarlo a propria volta. Invece è difficile trovare una persona normale in grado di servire a 220 chilometri all’ora senza svitarsi la spalla...».
Anche la rivalità fra di voi faceva spettacolo: avete richiamato un pubblico nuovo, poi scomparso.
«Era un’epoca diversa. Il tennis era una novità che solo allora usciva dai country club, anche se prima della mia generazione c’erano già stati grandi campioni. Siamo entrati in una specie di Far West: nessuno aveva mai gestito simili situazioni. “Dobbiamo far sì che i giocatori si calmino; ma non troppo, visto che ieri avevamo 4.500 spettatori e oggi ne abbiamo 9 mila”, pensavano i dirigenti. Il tennis voleva crescere, diventare popolare come il baseball o il basket. Tutti avevano l’obiettivo di attirare grandi sponsor, spuntare grossi contratti con la tv e avere un pubblico enorme. Per questo ci battevamo. È molto più divertente giocare davanti a 25 mila persone che a 2.500».
Oggi però quel pubblico si è allontanato.
«Sì, ma penso che se Murray restasse ai suoi livelli e Federer sapesse adattare il suo gioco agli anni che passano, vedremmo grandi cose. Però è essenziale che qualche giovane li sfidi, faccia sentire la sua presenza per evitare che ogni settimana si parli solo di Rafa e degli altri tre. Spero che un paio di quei ragazzi siano americani».
Nel ’91 lei vinse l’US Open a 39 anni. Federer può tornare il numero 1?
«Il solo pensiero che un atleta così, a 32 anni, sia vecchio, è umiliante! Credo serva guardare più intorno che dentro di lui. Ha avuto due figli, ha giocato tantissimo, ha vinto 17 tornei del Grande Slam... Il tempo passa e ti poni due domande: la prima è come mi mantengo in forma, la seconda è quanto impegno ho ancora voglia di metterci. E devi rischiare, magari il ritiro. Come me verso la fine degli Anni 70, per esempio».
La davano per finito...
«E avevo solo 26 o 27 anni. Non scoraggiarsi è fondamentale. Un campione insiste qualunque cosa dicano gli altri, scende in campo e mette il resto da parte: lì entra in gioco la solidità mentale».
Ma è possibile insegnarla? Come si fa?
«Non del tutto, in parte è innata. Il coach non può andare dal giocatore e dirgli: “Ok, ora sei diventato solido”. Io ero un menefreghista e facevo quel che volevo, ma oggi, con in ballo i soldi degli sponsor e i premi, è dura. Avrebbero senso quella mentalità, quel comportamento? Forse no. A me interessava solo il tennis. Sì, gli sponsor e il denaro contavano, ma vincere era tutto».
La gestione della rabbia: è mai stato in terapia come, pare, McEnroe?
«Per anni ci ho lavorato su portando a spasso i cani. Sul serio: sono i miei analisti. In campo mi sfogavo, poi il ritiro ha complicato tutto. Ma i cani, qualunque cosa dicessi o facessi, scodinzolavano. Come a dire: “Va tutto bene! Andiamo a fare due passi così ti sfoghi”. Perché un cane non ti giudica. Uscivamo e, al rientro, ero davvero un altro».
Fra lei e McEnroe è rimasta un po’ di tensione?
«Le acque si sono calmate, ma sarebbe un peccato se svanisse: piuttosto litigheremmo dal fruttivendolo per le banane. Lo dico con un sorriso perché era una rivalità speciale, in campo e fuori, e so di aver avuto rivali speciali: Lendl, Borg, “Nasty” cioè Nastase... C’era tensione anche con Gerulaitis e Guillermo Vilas. Con McEnroe, erano gue... battaglie». Stava per dire guerre. «È vero. Meglio di no, preferisco non dirlo: i tempi sono cambiati, ormai».