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 2014  agosto 19 Martedì calendario

PROCURE E LEADERSHIP, BINOMIO DIFFICILE


Una giustizia moderna ed efficace non può più prescindere dalla leadership dei capi degli uffici giudiziari. L’affermazione - contenuta nel libro «Giustizia, territori e governo dell’innovazione» scritto da magistrati e giuristi - è tanto perentoria quanto fragile nel riscontro con la realtà. Soprattutto se si guarda agli uffici di Procura, dove uno dei compiti fondamentali del capo è fare scelte di politica criminale, imposte dalla scarsità di risorse, e dove maggiore sembra essere il vuoto di leadership, figure in grado di coniugare egemonia e potere - per dirla con Gramsci - cioè autorevolezza, autorità, capacità di guidare e aggregare consenso ma senza subire la logica del consenso. Se li interroghi, i magistrati inarcano le sopracciglia e con lo sguardo smarrito vanno alla ricerca di qualche nome, trovandolo a fatica solo nel passato: Francesco Saverio Borrelli, che guidò la Procura di Milano negli anni di Mani pulite o Giancarlo Caselli alla Procura di Palermo. Il presente, invece, sembra un deserto. Tanto da far sorgere il sospetto che il problema non sia tanto la mancanza di una leadership quanto la resistenza a riconoscerla e accettarla perché ciò significherebbe implicitamente riconoscere e accettare una gerarchizzazione degli uffici di Procura, su cui le toghe sono profondamente spaccate. Il caso-Milano, cioè lo scontro tra il Procuratore capo Edmondo Bruti Liberati e l’Aggiunto Alfredo Robledo, ben rappresenta questa dicotomia.
Ma come altri temi che in passato hanno diviso le toghe prima di diventare addirittura patrimonio comune (si pensi all’”efficienza”), anche quello della leadership dei capi non può essere semplicemente rimosso ma bisogna farci i conti. Ragione di più per verificare se l’affermazione contenuta nel libro - «La capacità di leadership del capo ufficio è conditio sine qua non per l’esercizio di una funzione giudiziaria che, avendo nel “cuore” il principio dell’indipendenza, rivolga il proprio sguardo al mondo esterno circostante e a quello risponda in termini di uso delle risorse» - sia destinata a restare sulla carta o ad inverarsi nell’universo giudiziario contemporaneo.
Tre magistrati - Claudio Castelli, Franco Ippolito, Nello Rossi - appartenenti a «Magistratura democratica» e con alle spalle la medesima esperienza associativa (segretari dell’Anm e di Md) e istituzionale (componenti del Csm) hanno approcci e approdi diversi.
Castelli, presidente aggiunto dell’Ufficio Gip di Milano e responsabile dei processi innovazione del Tribunale, è anche uno degli autori del libro, insieme a Pasquale Liccardo, Daniela Piana, Luca Verzelloni e Giovanni Melillo (attualmente capo di gabinetto del ministro della Giustizia). Dal suo punto di vista esistono resistenze culturali e oggettive all’esistenza di leadership. «È un dato di fatto - spiega - l’ostilità di molti magistrati al concetto stesso di gerarchia, a cui il concetto di leadership finisce per essere associato, sulla scia di pessime esperienze di un passato neppure troppo lontano. Eppure, correttamente intesa e praticata, la gerarchia è il più semplice strumento di coesione di qualunque struttura umana, in cui il ruolo del capo deve essere in primis quello di aiutare e non di controllare o sanzionare. L’errore sta nel pensare che la leadership derivi dal ruolo ordinamentale in sé, quando invece si deve conquistare ogni giorno con i fatti». Nel 2006 la riforma dell’ordinamento giudiziario ha introdotto una tendenziale gerarchizzazione degli uffici di Procura, mutando anche il ruolo del dirigente, sostiene Castelli. Perciò «oggi si impone, in particolare nelle grandi Procure, la scelta di capi non solo di grande personalità ma dotati anche di enormi capacità organizzative, giuridiche, di coordinamento. Oggettivamente non è facile. Una volta tutto ciò non veniva richiesto e inoltre avevamo dirigenti scelti tendenzialmente sulla base dell’anzianità. Ecco perché oggi si è a corto di leadership negli uffici di Procura».
Leadership da costruire, dunque. Attraverso la formazione delle classi dirigenti della magistratura. «Finora c’è stata prevalentemente un’autoformazione mentre ci vorrebbe una sorta di “scuola di guerra” - dice sempre Castelli - non per rilasciare certificati ma per dare gli strumenti necessari, a chi ha le capacità, per essere un buon dirigente». Purtroppo, però, «una parte della magistratura non ha ancora digerito gli aspetti positivi della riforma del 2006 (la temporaneità degli incarichi, la scelta per merito e capacità) e preferirebbe addirittura tornare al criterio dell’anzianità nella scelta dei dirigenti». Fatto sta che «è in atto uno scontro culturale tra due visioni, una conservatrice e una moderna». E questo è un ostacolo oggettivo.
Non è affatto un conservatore Franco Ippolito, come dimostrano le sue esperienze organizzative passate (responsabile dell’Organizzazione giudiziaria del ministero) e attuali (presidente di sezione e segretario generale della Cassazione), benché critichi in modo radicale sia l’ordinamento delle Procure del 2006 sia l’idea di leadership comunemente intesa. «Personalmente non mi dispiace affatto che vi sia una resistenza della magistratura. Per come si è strutturata nell’epoca dello Stato costituzionale di diritto, la giurisdizione è un sistema di garanzie dei diritti che ha nelle regole i suoi binari naturali e non in un sistema di comandi e di gerarchie, e quindi di leadership». Ippolito vede «un nesso» con la politica: l’accentuazione personalistica della politica (Craxi, Berlusconi, Renzi) e la sottovalutazione di una tendenza verso forme di post-democrazie autoritarie sono «in rotta di collisione con lo Stato costituzionale di diritto basato su divisione dei poteri, limiti, differenziazione della rispettiva sfera di influenza»; a presidio di tutto questo c’è «un sistema di garanzie di cui fa parte la giurisdizione»; dunque, «la resistenza alla concezione gerarchico-militare e all’accettazione di un “capo” è un connotato quasi genetico della giurisdizione e della magistratura dello Stato costituzionale». Diverso è il concetto gramsciano di leadership, che «ha poco a che fare con tutto il chiacchiericcio politico - aggiunge Ippolito -: egemonia e potere significava capacità di interpretare al meglio esigenze e orientamenti diffusi nella società. In questa accezione - come capacità di trascinare in avanti, verso efficienza, ripristino della legalità uguale per tutti, consapevolezza costituzionale del ruolo del magistrato - la leadership ha un valore positivo. Ma non c’entra niente con il concetto di capo, perché la concezione napoleonica non deve e non può funzionare in un’organizzazione di garanzia. Anzi, è disfunzionale rispetto al raggiungimento della migliore efficienza del sistema».
La storia della magistratura conosce leadership positive e negative. La Procura di Palermo, ricorda Ippolito, ne è un esempio: quando il Procuratore della Repubblica dimostrò una capacità culturale di aggregazione (Caselli), riuscì a tirarsi dietro tutto l’ufficio mentre quando esercitò il ruolo di capo in senso gerarchico (Giammanco), l’ufficio si spaccò.
Nello Rossi tralascia gli antagonismi che una leadership può suscitare e si concentra sui «talenti» che la contraddistinguono: professionale, relazionale, comunicativo. «Difficili da trovare nei modesti artigiani del diritto quali sono i magistrati» chiosa il Procuratore aggiunto di Roma. Comunque sia, senza una «forte professionalità, sperimentata, riconosciuta, non è neppure immaginabile quel governo attraverso l’indirizzo e la persuasione che è poi l’unico concretamente esercitabile sui magistrati di un ufficio di Procura». Non si tratta di padroneggiare i molteplici saperi che affollano il mondo del diritto quanto, piuttosto, di avere «un saldo senso della realtà e la visione chiara delle strategie da porre in essere per adempiere compiti diversi: organizzare, spesso con spago e chiodi, una risposta accettabile alla domanda di giustizia di una collettività; concorrere attivamente a impostare processi nei quali un ufficio si gioca la credibilità; reggere l’urto degli interessi colpiti dall’iniziativa penale, facendo da scudo agli inevitabili clamori». Inoltre, «conta molto l’impegno ad acquisire un piccolo capitale di fiducia nella sfera esterna, nel mondo dei Tribunali e delle professioni, presso la stampa e gli interlocutori istituzionali. Scegliendo però - avverte Rossi - un profilo da investitore prudente a cui non interessa l’azzardo della conquista del consenso, che un giorno ti illude di essere ricco e il giorno dopo ti lascia povero e nudo». Last but not least, «un tocco di gusto comunicativo», cioè «la capacità di parlare, quando si descrivono le cose della giustizia, la lingua ricca e viva di tutti i giorni, l’italiano colto dalle mille sfumature e dalle infinite potenzialità espressive, rinunciando all’orribile gergo giuridico».
Visioni diverse, dunque, nonostante la comune matrice culturale. Ci vorrà tempo per verificare se sono sfumature o distanze incolmabili. Certo è che anche Rodolfo Sabelli, esponente di Unicost - la corrente centrista della magistratura - e ora presidente dell’Anm, è molto prudente. Esiste un modello “vivente” di leadership positiva? «Ce ne sono, ma è pericoloso indicare una persona fisica come modello. Anche perché non esiste un modello unico di leadership: la capacità di direzione e organizzazione dell’ufficio varia con il variare della realtà concreta in cui si opera, delle risorse disponibili. L’ordinamento del 2006 disegna un modello di Procura che voleva essere tendenzialmente gerarchico e quindi giustificare un’autorità, ma a me piace pensare di più a un modello che punti sulla professionalità, sull’autorevolezza, e quindi sulla responsabilità condivisa. La leadership attiene a qualità individuali di direzione, coinvolgimento, organizzazione, ma in modo condiviso. Quindi, va intesa più come autorevolezza che come autorità. La Procura, tra l’altro, è un ufficio che mal si concilia con l’emersione impropria di singole personalità, per il rischio di protagonismi, anche del capo. La leadership può essere un momento essenziale se punta a creare un’organizzazione il più possibile condivisa, anche attraverso incontri e scambi di idee». E dunque: Milano? «Sarebbe fuorviante parlare di un singolo caso», taglia corto. E si chiede quanto contino le circostanze che condizionano l’attenzione diffusa: «Borrelli, che certamente possedeva qualità leadership, avrebbe avuto questo riconoscimento pubblico se non ci fosse stata Mani pulite?».