Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  agosto 19 Martedì calendario

1964, GIGLIOLA CINQUETTI. QUANDO L’ITALIA NON AVEVA ETA’

«Non ho l’età. Non ho l’età per amarti. Non ho l’età per uscire sola con te»… Chi non se la ricorda (e non l’ha canticchiata almeno una volta)? Correva l’anno 1964, e a imporsi al Festival di Sanremo furono le strofe di Non ho l’età, interpretata sul palco da un’allora sedicenne Gigliola Cinquetti in coppia con Patricia Carli (alias la cantante italo-belga Rosetta Ardito). La «virginale» Gigliola era reduce dalla vittoria al concorso «Voci Nuove» di Castrocaro, e avrebbe trionfato pure all’Eurofestival di quell’anno a Copenaghen; il motivo dilagherà così irresistibile, addirittura su e giù per tutto il Villaggio globale, con versioni in inglese, francese, tedesco, spagnolo e persino in giapponese e islandese.
La canzone (scritta da Panzeri-Nisa) è un manifesto del «vorrei, ma non posso» dell’adolescenza in un Paese che stava mutando pelle, e in cui, però, paure, pudore, morale e modelli familiari stratificati facevano da poderoso argine al cambiamento. L’industria discografica, sismografo sensibilissimo dello Zeitgeist, con l’occhio puntato innanzitutto sul mercato e poi – ma le due cose, specie in taluni momenti storici, risultano perfettamente sovrapponibili – sui sommovimenti del costume, optò per una sorta di «terza via». E mandò in pista una (di lì a poco star) giovanissima, al tempo stesso «acqua e sapone» e allusiva, ricettiva di quanto si muoveva tra i coetanei e i ragazzi più grandi, ma capace di rintuzzare «urlatori» e «capelloni» e di raffreddare, a colpi di sorriso timido e voce esile, i bollenti spiriti che percorrevano la gioventù italica. Quelli comportamentali e sessuali, come pure quelli sociopolitici, i quali, per rimanere in ambiente musicale, si riversarono su Bella ciao, lo spettacolo di «canzoni popolari» messo in scena, sempre nel 1964, durante il Festival dei Due Mondi di Spoleto, dal Nuovo Canzoniere italiano (con valenza di «anti-Sanremo»). Ecco perché Cinquetti, non per nulla, venne consacrata dal Festival della canzone italiana, solitamente prudente e benpensante, nazionalpopolare e «ministeriale», e investito della mission, di concerto con le etichette discografiche, di ripristinare l’ordine e la stabilità canori e, dunque, anche emotivi.
Lo show business conosce infatti in quel momento i suoi primi trionfi, riuscendo a esprimere lo spirito dei tempi che cambiano e le esigenze del nuovo soggetto collettivo che irrompe sulla ribalta della storia. Perché se il Novecento, tra le altre cose, costituisce di sicuro «il secolo dei giovani», al suo interno è precisamente negli Anni Sessanta (il «decennio mirabile» del rock, al di fuori dei patri confini) che si delinea con nettezza quello che lo storico Roberto Balzani chiama il «legame giovanile», responsabile della produzione di lacerazioni forti nei confronti delle generazioni precedenti. Proprio per questo, nella nostra «nazione della mediazione», il business musicale aveva scelto di portare sul mercato, e accompagnare al successo, delle figure-ponte, in grado di farsi portavoce degli «scioccanti» problemi dei giovani, ma senza inquietare troppo le altre fasce anagrafiche, come avveniva invece nel mondo anglosassone.

Adelante, ma con juicio: come ha sottolineato Gianfranco Baldazzi (il paroliere di Lucio Dalla), l’American Dream nella Penisola doveva necessariamente venire declinato secondo gli schemi della «favola italiana». Così, i big stranieri venivano copiosi a fare la passerella a Sanremo, visto che le major consideravano con grande attenzione il nostro Paese, ma poi l’«egemonia del pop» – per dirla con il musicologo Paolo Prato – doveva rimanere saldamente in mani (e in lingua) italiane. Lo mostravano, appunto, Gigliola Cinquetti, e, sempre in quel 1964, il traguardo, per la prima volta, del milione di copie vendute da un 45 giri, centrato da Bobby Solo con Una lacrima sul viso (per la precisione, 1 milione e settecentomila).
Il ’64, inoltre, è l’anno che raccoglie i frutti dell’onda lunga del boom e rappresenta una delle porte di ingresso del nostro Paese nella società dei consumi, grazie anche e soprattutto alle generazioni più giovani. Basti pensare al fenomeno della «vespizzazione»: dal 1950 al ’64, il numero di motorette circolanti passa dalle 700 mila unità ai 4 milioni e 300 mila (nel corso di questo periodo viene infatti coniato il termine «centauro»). O al triplicarsi del numero di apparecchi televisivi posseduti dalle famiglie italiane, che passa dal paio di milioni del 1960 ai sei del ’65, l’anno in cui la rivolta generazionale monterà, sino a sfociare nella contestazione studentesca (e operaia) del Sessantotto.
E, così, si voltava pagina. Ma dopo quella fiammata, mentre gli anni via via trascorrono, la mobilità sociale si inceppa e il riflusso si impone, i giovani verranno progressivamente confinati al ruolo di puri consumatori, senza grandi possibilità di dire la propria nella vita pubblica. Oppure si troveranno costretti, come accade da alcuni anni a questa parte, a riprendere la via dell’emigrazione alla ricerca di maggior fortuna. E, dunque, tra bamboccioni (non di rado, «loro malgrado»), rivoluzioni «rottamatorie» (o presunte tali) e fughe di cervelli, l’Italia, decisamente, non è un Paese per giovani, ma una nazione nella quale «non si ha l’età», mai; anche se, a dire il vero e a rigor di logica, non è neppure un «Paese per vecchi», giudicando da quella fetta di anziani che tra scarsa assistenza, sostegno obbligato a figli e nipoti e pensioni tutt’altro che d’oro non si gode propriamente al meglio l’età del ritiro.
E d’altronde, nemesi o ironia della sorte, quando il più giovane presidente del Consiglio della storia repubblicana, Matteo Renzi, ha fatto il suo discorso di richiesta della fiducia al Senato, ha esordito proprio con «la citazione colta di Gigliola Cinquetti», rimarcando di non avere l’età per sedere nella Camera alta (naturalmente prima che la sua riforma venga definitivamente approvata…).