Antonio Armellini, Corriere della Sera 19/8/2014, 19 agosto 2014
LA GUIDA CHE MANCA ALL’EUROPA
I ministri degli Esteri dell’Unione Europea, riuniti a Bruxelles nelgiorno di Ferragosto,hanno espresso la loro preoccupazione per l’avvitarsi della crisi irachena, condannato come crimini contro l’umanità le violenze dell’Isis (lo Stato islamico), manifestato illoro appoggio ad Haidar Al Abadi, chiamato a sostituire Nuri Al Maliki al traballante timone del governo di Bagdad. Tutte dichiarazioni corrette e direi doverose, dette con una sola voce.
Hanno aggiunto di «accogliere con favore la decisione di singoli Stati membri» di inviare aiuti militari ai peshmerga curdi che si oppongono alle stragi delle truppe del cosiddetto Califfato. Nel passaggio fra sostegno politico ed intervento operativo, alla voce unica dell’Ue si è sostituita una pluralità di voci diverse, non necessariamente dissonanti e solo apparentemente coordinate.
La minaccia posta dall’Isis va ben oltre lo specifico iracheno e siriano; tocca in una prospettiva neanche troppo remota il cuore stesso della politica mondiale, aprendo scenari che richiedono prontezza di reazioni e immaginazione politica. Non solo noi, ma una parte significativa del mondo musulmano ha molto da perdere, sia pure per ragioni diverse, da una crisi fuori controllo: sebbene le posizioni siano spesso distanti su punti fondamentali, l’urgenza di porre un freno al dilagare del fondamentalismo può creare un terreno su cui costruire convergenze tanto necessarie quanto sin qui inedite: a partire dall’Egitto di Al Sisi, la Turchia di Erdogan e l’Iran di Rouhani, come ha osservato Sergio Romano (sul Corriere del 12 agosto 2014). Dinanzi alle esitazioni della politica americana, con un Obama restio a nuove avventure, all’Europa si presenta l’occasione di costruire una trama di rapporti che, andando oltre l’emergenza, guardi a ipotesi di stabilizzazione di lungo periodo. Anche perché è sempre più chiaro a tutti che gli aiuti militari e i raid di droni e cacciabombardieri potranno servire a guadagnare tempo per trovare una soluzione vera, non certo a risolvere la crisi.
Non c’è da stupirsi se la Pesc (politica estera e di sicurezza comune dell’Ue) stenta ad andare oltre il livello delle dichiarazioni di impegno politico e di un blando coordinamento. Qualunque politica estera è intanto possibile in quanto riesca ad esprimere un interesse condiviso, mediando fra diverse posizioni in nome di un obiettivo prioritario. Se, tanto per fare un esempio, la Pesc fosse realtà e non soprattutto ambizione, sarebbe stato possibile nella crisi ucraina gestire il problema della fornitura da parte francese delle portaerei alla Russia, in maniera da permettere da un lato di evitare un vulnus alla posizione europea e, dall’altro, prevedere per Parigi la possibilità di compensazioni su altri piani. È solo un esempio fra i tanti: senza un vero punto di mediazione comune degli interessi nazionali, parlare di Pesc in presenza di crisi che tocchino interessi forti, rischia di diventare una riedizione del vizio comunitario di mascherare l’impotenza con salti in avanti formali: si crea una nuova istituzione, un nuovo comitato, un nuovo coordinamento, in attesa di riempirlo di una sostanza che si vorrebbe ci fosse, ma non si sa se ci sarà.
Nella vicenda delle armi ai peshmerga ciascuno ha seguito un proprio percorso. Francia e Gran Bretagna hanno guidato il fronte interventista, memori del loro ruolo storico nella regione (la memoria di Sykes-Picot, perduta altrove, è ancora viva nella regione e tanto Parigi che Londra lo sanno), tirandosi dietro qualche nuovo attivista come la Repubblica Ceca (che ha un importante stock di armamenti di origine sovietica da eliminare), gli scandinavi si sono chiamati fuori da tutto quanto non fosse strettamente umanitario. Il ministro Federica Mogherini è stata una attiva promotrice della riunione di Ferragosto: in parte forse per dimostrare la sua predisposizione ad assumere quella carica di Alto Commissario su cui si addensano sempre molte nubi, in parte perché la solita frase «Bruxelles lo vuole» potrà permettere un passaggio parlamentare più indolore della decisione di intervenire. Molti lo dimenticano, ma nella «guerra di Bush» del 2003 in Iraq, l’Italia è stato il terzo Paese per presenza sia di truppe militari sia di esperti civili: che noi si continui a sentire qualche responsabilità è lodevole. Dopo la consueta ritrosia iniziale, la Germania ha cambiato atteggiamento ed espresso una disponibilità concreta, complice anche un blitz del ministro Walter Steinmeier a Bagdad. L’azione europea sarà stavolta più credibile perché Berlino farà la differenza.
E dovrà farla sempre più spesso. Il tempo in cui l’Europa pensava di potersi reggere su una testa politica francese e un braccio economico tedesco è finito: sono cambiati i protagonisti e l’intesa fra i due poggia più su un volontarismo residuale che sui fatti. È parimenti tramontata l’illusione di una politica di sicurezza intorno al nucleo franco-britannico, che è rimasto al massimo bilaterale. Sino a quando non si sarà realizzato l’obiettivo lontano (e forse futuribile) dell’Europa unita, la politica estera dell’Unione Europea (che, si badi bene, è cosa ben diversa) potrà essere efficace se potrà contare sulla leadership di chi al suo interno abbia il maggior peso e la capacità di assicurare il coordinamento possibile fra le diverse posizioni. Con buona pace di Parigi questi non potrà essere che la Germania, il cui attuale ruolo di gigante economico e di leader politico riluttante non può reggere a lungo ad una contraddizione insita. A consolazione di quanti rimpiangono il detto andreottiano che amare la Germania significa… volerne due, potrà valere la considerazione che per una politica estera tedesca più assertiva e saldamente inserita nel contesto comunitario sarà più difficile cedere alla tentazione di derive inconsulte. Mentre in caso contrario, fare predizioni sarebbe probabilmente più difficile. E rischioso.